A gennaio 2020, nonostante la Libia abbia diminuito la produzione di greggio di circa 800.000 b/g, passando da oltre 1.000.000 b/g a poco più di 300.000 b/g a seguito di un blocco dei propri principali terminali di esportazione di petrolio, i prezzi del barile sono fortemente diminuiti in virtù dei timori riconducibili al rallentamento della crescita della domanda globale di petrolio. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto la quotazione a 66,2 $/b e ha chiuso a 58,19 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha iniziato le transazioni a 61,3 $/b, chiudendo a 51,58 $/b.
L’8 gennaio, il barile ha raggiunto il massimo da sette mesi a questa parte, scambiando rispettivamente a 70,73 $/b e a 64,83 $/b sulla scia accordo commerciale (fase 1) raggiunto tra gli Stati Uniti d’America e la Cina.
Dopodiché, i prezzi del petrolio sono crollati al minimo di tre mesi a questa parte a causa del timore di un rallentamento economico dovuto al virus scoppiato in Cina.
Secondo un rapporto di Goldman Sachs, il coronavirus potrebbe ridurre la domanda mondiale di greggio di circa 260.000 b/g e i prezzi di 3 $/b.
di Demostenes FlorosA dicembre 2019, il prezzo del petrolio ha toccato il massimo da tre mesi a questa parte in virtù dei seguenti fattori economici e geopolitici:
1. Il 6 dicembre, i 24 paesi che compongono l’OPEC+ hanno incrementato i tagli estrattivi per un ammontare di 500.000 b/g, portandoli da 1.200.000 b/g a 1.700.000 b/g fino al 31 marzo 2020, con lo scopo di ridurre l’attuale eccesso di offerta presente nel mercato petrolifero;
2. In base alle stime fornite dall’International Energy Agency il 27 dicembre, le scorte commerciali USA sono diminuite da 447.096.000 barili il 29 novembre a 441.359.000 barili il 20 dicembre;
3. Il 13 dicembre, gli Stati Uniti d’America e la Cina hanno annunciato di avere raggiunto un primo accordo commerciale. In virtù di ciò, la Cina ha rimosso sei derivati chimici e petroliferi dalla lista delle importazioni USA soggette a tariffe;
4. Secondo le statistiche divulgate da Bloomberg News il 17 dicembre, le importazioni medie di greggio da parte della Cina hanno toccato 11.180.000 b/g a novembre 2019, record da sempre.
A dicembre, la qualità Brent North Sea ha aperto le contrattazioni a 60,98 $/b e le ha chiuse a 66,16 $/b (+24% dall’inizio dell’anno), mentre il West Texas Intermediate ha aperto scambiando a 55,64 $/b per poi chiudere a 61,41 $/b (+36% nel 2019).
Il 17 dicembre, John Kemp, responsabile del settore Energy presso la Reuters, ha messo in luce che “Negli Stati Uniti, la Riserva Federale ha tagliato i tassi di interesse per 3 volte nel corso dell’anno per un totale di 75 punti base nel tentativo di prolungare l’attuale espansione”.
A novembre 2019, nonostante le scorte commerciali USA siano costantemente aumentate da 438.853.000 barili il 25 ottobre a 451.952.000 barili il 22 novembre, il prezzo del barile è aumentato di circa 2,5 $/b in virtù del crescente ottimismo in merito al superamento dell’attuale disputa commerciale tra gli Stati Uniti d’America e la Cina, il cui effetti stanno influenzando negativamente la crescita della domanda petrolifera. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le transazioni a 59,67 $/b e ha chiuso a 62,43 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha iniziato scambiando a 54,34 $/b, per poi chiudere a 55,65 $/b.
Con ogni probabilità, nel corso del prossimo OPEC+ meeting che avrà luogo il 5/6 dicembre, l’Organizzazione non rafforzerà ulteriormente gli attuali tagli estrattivi (-1.200.000 b/d). Tuttavia, è probabile che l’accordo in scadenza il prossimo 31 marzo 2020 venga esteso almeno fino a giugno 2020, se non per l’intero 2020. “Spero che prendano la giusta decisione per essi stessi e per l’economia globale che è ancora molto fragile” ha asserito Fatih Birol, il Direttore Esecutivo dell’International Energy Agency, lo scorso 26 novembre.
di Demostenes FlorosA ottobre 2019, il prezzo del barile è rimasto sostanzialmente costante. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto gli scambi a 59,5 $/b e gli ha chiusi a 60,21 $/b, mentre il greggio West Texas Intermediate ha aperto a 54,30 $/b per poi chiudere a 54,07$/b.
Il 3 ottobre, entrambi i benchmark (qualità di riferimento) hanno toccata il minimo mensile, venendo rispettivamente scambiati a 56,53 $/b e a 51,37 $/b a causa dell’incremento delle scorte USA di 3.100.000 barili per complessivi 422.000.000 barili registrato dalla U.S. Energy Information Administration.
Secondo il report (rapporto) pubblicato da Global Platts il 14 ottobre, per la prima volta dall’aprile 2019, la Cina ha importato 10.080.000 b/g a settembre (+ 11% anno su anno). Nel corso dei primi 9 mesi del 2019, la media dell’import cinese è stata di 9.910.000 barili (+ 9,7% anno su anno). In aggiunta, i rumors (voci) relativi alla possibilità che l’OPEC+ possa rafforzare i tagli nel corso del prossimo meeting (incontro) di dicembre 2019 al fine di controbilanciare la debole crescita della domanda, hanno sostenuto una leggera ripresa dei prezzi, verificatasi nella seconda metà del mese.
Il 22 ottobre, Le Yucheng, vice Ministro agli Affari Esteri di Cina, ha affermato che “sino a quando [Cina e USA] si rispetteranno, tutti i problemi potranno essere risolti. Nessun paese può prosperare senza lavorare insieme alle altre nazioni. Il mondo desidera che Cina e Stati Uniti mettano fine alla loro guerra commerciale […], piuttosto che intraprendere una nuova Guerra Fredda”.
In attesa che tale stallo geopolitico si sblocchi, il 25 ottobre 2019, le scorte commerciali USA hanno raggiunto i 438.853.000 barili.
di Demostenes FlorosA settembre 2019, il greggio Brent North Sea ha aperto le contrattazioni a 58,65 $/b e le ha chiuse a 60,78 $/b, mentre la qualità West Texas Intermediate ha aperto gli scambi a 54,65 $/b, chiudendo a 54,30 $/b.
Come diretta conseguenza degli attacchi militari subiti dall’Arabia Saudita il 14 settembre, sia il benchmark europeo e asiatico, sia il riferimento americano hanno toccato i massimi mensili, rispettivamente quotando 69,18 $/b il 17 settembre e 63,07 $/b il 16 settembre. Nello specifico, grazie all’utilizzo di droni, sono stati colpiti il bacino petrolifero di Khurais e l’impianto di Abquaid, provocando un calo della produzione saudita di 5.700.000 b/g. Inoltre, dal 30 agosto al 6 settembre, le scorte commerciali USA sono diminuite di 6.912.000 barili.
Nel corso della seconda metà del mese, i prezzi del barile sono calati in virtù dei seguenti fattori:
1. Secondo la Reuters, il 25 settembre, la compagnia statale petrolifera Saudi Aramco aveva già ripristinato la capacità produttiva precedente gli attacchi (11.300.000 b/g). Tuttavia, la notizia non è stata confermata dal Wall Street Journal, secondo il quale il giacimento di Khurais, così come lo stabilimento di Abquaid, necessiteranno di mesi e non di settimane affinché tornino a lavorare a pieno regime;
2. Le scorte USA sono incrementate da 416.068.000 barili il 6 settembre a 419.538.000 barili il 20 settembre (+3.470.000 barili), a dispetto di una decrescita prevista di 6.500.000 barili;
3. Nonostante gli Stati Uniti d’America abbiano immediatamente accusato l’Iran di essere il responsabile degli attacchi contro l’Arabia Saudita, Washington non ha reagito con un atto di guerra nei confronti di Teheran. Inoltre, il 23 settembre, l’Iran ha annunciato che la petroliera battente bandiera britannica Stena Impero – che era stata precedentemente confiscata – era libera di salpare;
4. Il 27 settembre, l’Arabia Saudita ha annunciato una parziale tregua nei confronti dei combattenti Houthi in Yemen.
Nel breve periodo, il trend del greggio dipenderà in gran parte dall’esito degli colloqui USA-Cina, i quali riprenderanno a ottobre come deciso lo scorso 5 settembre dal vice Presidente cinese, Liu He, dal Segretario di Stato USA, Steven Mnuchin, e dal Rappresentante USA per il Commercio, Robert Lighthizer.
Nei fatti, lo scontro commerciale in corso tra le due superpotenze sta influenzando l’economia globale, così come la domanda di petrolio.
di Demostenes FlorosAd agosto 2019, il prezzo del barile è diminuito per cause riconducibili ai fondamentali e a fattori geopolitici. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le transazioni a 64,01 $/b e le ha chiuse a 60,36 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto le quotazioni a 57,69 $/b, chiudendo a 55,08 $/b.
Il 7 agosto, sia il benchmark asiatico ed europeo Brent, sia il riferimento americano WTI hanno toccato il minimo mensile, venendo rispettivamente scambiati a 56,41 $/b e a 50,93 $/b, in virtù dell’inasprimento della guerra commerciale tra gli Stati Uniti d’America e la Cina con conseguente rallentamento della crescita dell’economia globale come pure della domanda di petrolio. In aggiunta, dal 26 luglio al 9 agosto, le scorte petrolifere USA sono aumentate da 436.545.000 barili a 440.510.000 barili.
Nel corso della seconda metà del mese, il barile ha recuperato parte del terreno precedentemente perso a causa dei seguenti fattori.
Il 19 agosto, l’impianto saudita di Shaybah, che produce circa 1.000.000 b/g, poco meno del 10% dell’intero output della Petromonarchia, è stato colpito da un drone dei combattenti yemeniti. Inoltre, il 23 agosto, le scorte commerciali USA sono calate a 427.751.000 barili.
Da ultimo, ma non di minor importanza, il 26 agosto, il Presidente Donald Trump ha affermato che la Cina desidererebbe riprendere i colloqui sul commercio. Se così fosse, le tensioni tra i due paesi si allenterebbero.
Da aprile 2019, il barile ha perso il 15% del proprio valore. Tuttavia, le attuali quotazioni sono superiori rispetto a quelle del 1° gennaio 2019 quando i produttori dell’OPEC+ iniziarono a ridurre l’output di 1.200.000 b/g.
di Demostenes FlorosA luglio 2019, i prezzi del petrolio sono leggermente diminuiti. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le quotazioni a 65,93 $/b e le ha chiuse a 65,18 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto a 59,60 $/b, chiudendo a 57,89 $/b.
L’11 luglio, entrambe le qualità hanno raggiunto il massimo mensile – rispettivamente quotando 67,58 $/b e 60,84 $/b – a causa del calo delle scorte statunitensi, le quali sono decresciute da 468.491.000 barili il 28 giugno a 458.992.000 barili il 5 luglio. Inoltre, l’uragano Barry ha nel contempo colpito il Golfo del Messico, riducendo l’output della regione di oltre 600.000 b/g, approssimativamente 1/3 dell’intera produzione del Golfo.
Il 18 luglio, sia il benchmark europeo e asiatico, sia il riferimento americano hanno toccato il minimo mensile venendo rispettivamente scambiati a 61,66 $/b e a 54,79 $/b, in virtù dei timori riconducibili al possibile rallentamento della crescita della domanda globale di petrolio nella seconda metà dell’anno corrente.
Durante gli ultimi dieci giorni di luglio, i prezzi del barile suono nuovamente aumentati in conseguenza di tre fattori concomitanti:
1. La crescente tensione nel Golfo Persico, dal quale transitano 18.500.000 b/g di petrolio e derivati;
2. L’ulteriore riduzione delle scorte commerciali USA, le quali sono calate da 455.876.000 barili il 12 luglio a 445.041.000 barili il 19 luglio;
3. Il 31 luglio, per la prima volta dal 2008, la Federal Reserve ha tagliato i tassi di interesse di 25 punti base, portandoli nel range (forbice) 2-2,25%, con lo scopo di supportare l’economia statunitense e, di conseguenza, anche la domanda globale petrolifera.
A giugno 2019, nonostante le sanzioni USA, la Cina ha importato 208.205 b/g dall’Iran, il 60% circa in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tuttavia, specialmente da un punto di vista geopolitico, il fatto che la cooperazione sino-iraniana sia tuttora in campo rappresenta un fattore fondamentale per la stabilità del prezzo del barile.
di Demostenes FlorosA giugno 2019, il prezzo del barile è significativamente aumentato (circa 5,5 $/b). In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto gli scambi a 61,62 $/b e li ha chiusi a 66,71 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto le negoziazioni a 52,97 $/b, chiudendole a 58,20 $/b.
Sia il prezzo del benchmark per i mercati europeo e asiatico, sia il riferimento americano sono incrementati a causa dei seguenti fattori economici e geopolitici:
1. Dopo essere diminuite a 485.470.000 barili il 7 giugno (minimo dal 1990), le scorte USA sono ulteriormente calate a 469.576.000 barili il 21 giugno (-15.890.400 barili), il maggior declino registrato nelle forniture statunitensi dal settembre 2016. Sulla scia di quest’ultimo dato pubblicato dall’Energy Information Administration il 26 giugno, il WTI ha raggiunto il massimo mensile, scambiando a 59,70 $/b;
2. Dopo avere raggiunto il record estrattivo di 12.400.000 b/g il 31 maggio, l’output USA è decresciuto a 12.100.000 b/g il 21 giugno;
3. Il 20 giugno, la contraerea iraniana ha abbattuto un drone statunitense presso lo Stretto di Hormuz, nel Golfo Persico. Secondo le informazioni divulgate da Teheran, il drone era entrato nello spazio aereo iraniano. Di converso, Washington ha rivendicato il fatto che il velivolo fosse nello spazio aereo internazionale;
4. A maggio 2019, la Federazione Russa ha ridotto le proprie estrazioni a 11.110.000 b/g, portandole al di sotto del livello stabilito in accordo con l’OPEC+ a dicembre 2018 (11.180.000 b/g). Nello specifico, le forniture russe trasportate attraverso l’oleodotto Druzhba, il quale connette la Russia con l’Europa centrale, si sono ridotte da aprile 2019 a causa del greggio contaminato.
Il 29 giugno, il presidente USA, Donald Trump, ha incontrato il suo omologo cinese Xi Jinping durante il G20 di Tokio. Trump e Xi hanno deciso di riaprire il dialogo in merito all’intesa commerciale tra le due superpotenze economiche. Nel caso in cui riuscissero a conseguire un accordo nel corso delle prossime settimane, esso avrà senza dubbio un impatto positivo sulla domanda petrolifera.
La correlazione positiva che sussiste anche tra il trend della domanda cinese di greggio e il prezzo del Brent (stimata al 79%, ceteris paribus), in aggiunta al prolungamento dei tagli stabiliti dall’OPEC+ a Vienna il 1° luglio 2019, presumibilmente supporteranno il prezzo del barile nel corso della seconda metà dell’anno.
di Demostenes FlorosA maggio 2019, il prezzo del petrolio è diminuito in maniera significativa a causa delle tensioni commerciali tra gli Stati Uniti d’America e la Cina, le quali potrebbero negativamente intaccare la crescita della domanda globale. “L’impressione è che ci stiamo trincerando in una guerra commerciale che danneggerà la domanda di greggio” ha dichiarato il commodity manager, Tariq Sahir.
In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le contrattazioni a 72,03 $/b e le ha chiuse a 64,47 $/b (-10% rispetto ad aprile), mentre il West Texas Intermediate ha aperto a 63,68 $/b, chiudendo a 53,4 $/b, il minimo dal 12 febbraio (-16% mese su mese).
Il 23 maggio, le scorte statunitensi sono incrementate di 4.740.000 b/g per un totale di 476.775.000 barili. Secondo i dati dello U.S. Energy Department, si tratta del livello più alto da luglio 2017. Le scorte americane, in aggiunta al record estrattivo USA di 12.200.000 b/g, sono la principale causa del differenziale di prezzo esistente tra le qualità Brent e WTI, oramai attorno agli 11 $/b.
Ad aprile 2019, la conformità dei limiti produttivi all’accordo OPEC+ del 7 dicembre 2018 (-1.200.000 b/g) ha raggiunto il 168% rispetto al 138% di marzo. Per questa ragione, in occasione del vertice Vienna in programma il 30 giugno 2019, i produttori potrebbero decidere di eliminare l’eccesso di tagli, rispettando comunque i livelli di output previsti nell’intesa per poi prolungarla nella seconda metà dell’anno.
Se così fosse, l’Arabia Saudita, leader dell’OPEC, e la Federazione Russa, capofila dei produttori non-OPEC, potrebbero inoltre raggiungere un equilibrio politico reciprocamente vantaggioso.
di Demostenes FlorosAd aprile 2019, i prezzi del barile sono aumentati, raggiungendo i massimi da sei mesi a questa parte. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le transazioni a 69,22 $/b e le ha chiuse a 71,68 $/b, mentre il greggio West Texas Intermediate ha aperto le quotazioni a 61,74 $/b, chiudendole a 63,56 $/b.
Il 24 aprile, il benchmark europeo e asiatico ha toccato il massimo a 74,59 $/b. Il giorno precedente, la qualità americana si era spinta fino a 66,09 $/b. I prezzi del petrolio sono aumentati perché il Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, il 2 maggio 2019 non ha rinnovato le deroghe all’acquisto di greggio iraniano. Quest’ultime erano state concesse il 5 novembre 2018 a 8 paesi: Cina, India, Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Italia, Turchia e Grecia.
In aggiunta, il mercato del petrolio è stato influenzato dai seguenti fattori rialzisti:
1. L’intensificazione della Guerra in Libia;
2. I tagli dell’OPEC+ stabiliti alla fine del 2018 (-1.200.000 b/g);
3. Le sanzioni statunitensi imposte al Venezuela;
4. La momentanea riduzione della produzione non convenzionale USA (tight oil) per un ammontare di 100.000 b/g verificatasi a metà aprile.
La modesta decrescita dei prezzi registrata alla fine del mese è stata invece dovuta alla crescita delle scorte commerciali statunitensi, incrementate da 455.154.000 barili a 460.633.000 barili (+ 6.860.000 barili).
Sulla scia della pubblicazione di quest’ultimo dato, Carsten Fritsch, analista finanziario presso Commerzbank, ha affermato che “la situazione nel mercato petrolifero si è tranquillizzata. Apparentemente, il mercato globale del petrolio è sufficientemente approvvigionato”. Tuttavia, la decisione di Trump non rinnovare le deroghe è stata “una sorpresa rialzista per il mercato” aveva in precedenza evidenziato Olivier Jakob, analista per Petromatrix.
di Demostenes FlorosA marzo 2019, il prezzo del barile è aumentato di circa 3,5 $/b, venendo scambiato intorno ai massimi da quattro mesi a questa parte. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le quotazioni a 64,99 $/b e le ha chiuse a 68,36 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto a 56,2 $/b, per poi chiudere a 60,22 $/b.
Nel dettaglio, i prezzi del greggio sono costantemente cresciuti sino al 20 marzo 2019 – rispettivamente quotando 68,3 $/b e 60 $/b – poiché le scorte commerciali statunitensi sono decresciute dai 449.072.000 barili dell’8 marzo 2019 ai 439.483.000 barili del 15 marzo 2019. In seguito, sono leggermente diminuiti a causa dell’apprezzamento del dollaro (€/$ 1,1218 il 28 marzo) prima di aumentare nuovamente sulla scia delle dichiarazioni del ministro dell’Energia russo, Alexander Novak, il quale ha affermato che la Federazione Russa avrebbe raggiunto la propria quota di tagli a inizio aprile (-228.000 b/g).
A partire dal 2019, i prezzi dei benchmark asiatico-europeo e statunitense sono rispettivamente saliti del 25% e del 30% nella misura in cui i tagli dell’OPEC+, in aggiunta ai cali estrattivi in Venezuela (-142.000 b/g a febbraio 2019) e Iran, hanno più che controbilanciato la crescente produzione di tight oil USA (12.100.000 b/g da febbraio 2019).
Secondo Goldman Sachs, “l’ultimo rally del Brent ha portato i prezzi al picco di 67,5 $/b, tre mesi prima rispetto a quanto da noi preventivato. Nel prossimo futuro, la crescita della domanda [stimata di 1.450.000 b/g nel 2019] e le interruzioni delle forniture potrebbero spingere i prezzi fino a 70 $/b. Le perdite sul versante dell’offerta, così come la crescita della domanda, stanno superando le nostre aspettative […] mentre le posizioni nette di lungo periodo rimangono tuttora depresse”.
Questa situazione potrebbe potenzialmente rappresentare una perfetta tempesta di stampo rialzista, a meno che il prossimo maggio Donald Trump non proroghi le deroghe nei confronti degli acquirenti di petrolio iraniano attualmente sotto sanzioni USA.
di Demostenes FlorosA febbraio, i prezzi del petrolio sono aumentati. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le negoziazioni a 62,91 $/b e le ha chiuse a 66,45 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto gli scambi a 55,67 $/b, chiudendoli a 57,25 $/b. Dall’inizio del 2019, i prezzi del barile sono aumentati del 26% circa.
L’11 febbraio, entrambe le qualità hanno toccata il minimo mensile, il Brent quotando 61,97 $/b e il WTI 52,82 $/b, a causa dell’incremento delle scorte commerciali USA da 445.944.000 barili il 25 gennaio a 454.512.000 barili il 15 febbraio (+8.568.000 barili).
Il 20 febbraio, sia il benchmark europeo e asiatico, sia il riferimento americano hanno raggiunto il massimo del mese, venendo rispettivamente scambiati a 67,14 $/b (record da tre mesi) e a 57,27 $/b in virtù delle seguenti ragioni:
1. A gennaio 2019, l’Arabia Saudita ha estratto 10.200.000 b/g (11.090.000 b/g a novembre 2018), tagliando il proprio output per un ammontare superiore rispetto a quanto stabilito dall’OPEC Plus, durante il meeting di Vienna tenutosi a fine 2018;
2. I segnali di disgelo delle tensioni commerciali tra Stati Uniti d’America e Cina, i quali avrebbero un impatto positivo sulla domanda globale di petrolio.
Nel corso dell’ultima settimana di febbraio, i prezzi del barile sono inizialmente decresciuti in virtù della produzione record di 12.100.000 b/g raggiunta dagli USA e sulla scia delle affermazioni del Presidente statunitense, Donald Trump, il quale ha avuto modo di twittare: “I prezzi del petrolio stanno diventando troppo alti. Per favore Opec rilassati e prenditela comoda. Il mondo non può sopportare aumenti di prezzo, è fragile”! Tuttavia, il 12 febbraio, il Ministro del Petrolio saudita, Khalid Al Falih, aveva dichiarato che il suo paese avrebbe ridotto il proprio output a 9.800.000 b/g a marzo. Nel contempo, il ministro aveva precisato che l’Arabia Saudita avrebbe per di più diminuito le proprie esportazioni a 6.900.000 b/g (8.200.000 b/g a novembre 2018).
“L’OPEC deve nuovamente scegliere tra l’ira di Trump e il crollo dei prezzi” ha infatti titolato Bloomberg il 26 febbraio.
Da ultimo, il greggio ha chiuso in rialzo a causa del crollo delle scorte petrolifere USA di 8.647.000 barili a complessivi 445.860.000 barili.
di Demostenes FlorosA gennaio, i prezzi del barile sono significativamente aumentati perché i membri dell’OPEC+ hanno iniziato a implementare gli accordi decisi durante il meeting di Vienna del 30 novembre 2018. Nello specifico, i produttori di petrolio avevano deciso di tagliare le estrazioni per un ammontare pari a 1.200.000 b/g nel corso del primo semestre del 2019 con l’obiettivo di rimuovere l’eccesso di offerta presente nel mercato petrolifero.
Nel primo mese del 2019, la qualità Brent North Sea ha aperto le quotazioni a 54,75 $/b e le ha chiuse a 61,06 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto le contrattazioni a 46,6 $/b, chiudendole a 54,15 $/b. Sia il benchmark (riferimento) europeo e asiatico, sia quello americano hanno raggiunto il massimo mensile il 21 gennaio – rispettivamente quotando, 62,83 $/b e 54,19 $/b – in virtù della crisi politica divampata in Venezuela, lo Stato con le maggiori riserve petrolifere al mondo.
In aggiunta all’accordo petrolifero dell’OPEC+ e ai tumulti presenti nello paese Latinoamericano, un ulteriore fattore rialzista è stato il seppur tenue deprezzamento del dollaro e l’impressione che la Federal Reseve non adotterà una politica monetaria fortemente restrittiva come precedentemente ipotizzato.
Nel contempo, il mercato petrolifero è stato caratterizzato anche da alcuni fattori ribassisti, tuttora presenti, tra i quali:
1. L’11 gennaio 2019, gli USA hanno estratto il record di 11.900.000 b/g. Tuttavia, una serie di segnali – a partire dal trend delle trivelle attive – suggeriscono che l’output di tight oil e shale gas rallenterà la propria crescita nel 2019;
2. Nel 2018, si prevede che il PIL della Cina crescerà del 6,6%, il tasso più basso dal 1990 a oggi.
Secondo le stime del report pubblicato dall’International Monetary Fund il 21 gennaio, l’economia mondiale aumenterà del 3,5% nel 2019 e del 3,6% nel 2020. Nel Negli ultimi tre mesi, trattasi della seconda revisione al ribasso (-0,2% e -0,1%) in confronto a quando preventivato a ottobre 2018. “La crescita globale si sta espandendo a un ritmo salutare, ma stiamo assistendo a un rallentamento” ha affermato la responsabile della ricerca, Gita Gopinath, precisando che “nell’economia globale sussistono una serie di rischi ribassisti”.
Se l’intensità della crescita globale pone una minaccia alla domanda di petrolio, le nuove sanzioni USA imposte alla compagnia Petroleos de Venezuela SA il 29 gennaio rappresentano un ulteriore rischio sul versante dell’offerta che potrebbe sfociare in una maggiore volatilità dei prezzi.
di Demostenes FlorosA dicembre, il prezzo del petrolio è diminuito di quasi 8 $/b sulla scia delle tensioni finanziarie internazionali. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le negoziazioni a 61,91 $/b e le ha chiuse a 54,15 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto le quotazioni a 53,35 $/b, terminando a 45,67 $/b. Il 24 dicembre, dopo l’annuncio del quarto taglio dei tassi di interesse implementato dalla Federal Reserve nel corso del 2018, sia il benchmark europeo e asiatico, sia il riferimento americano, hanno raggiunto i rispettivi minimi. Nello specifico, il Brent ha toccato 50.68 $/b – il prezzo più basso dal 18 agosto 2017 – mentre il WTI è calato fino a 42,38 $/b – il prezzo minore dal 10 agosto 2016.
Inoltre, nel corso della seconda metà di dicembre, il prezzo del barile si è fortemente ridotto in virtù dei seguenti fattori:
1. Grazie alla tecnica del fracking, gli Stati Uniti hanno estratto 11.700.000 b/g, un ammontare record. Nel contempo, la Federazione Russa ha prodotto 11.420.000 b/g;
2. Secondo l’International Energy Agency, a ottobre, le scorte commerciali dei Paesi facenti parte dell’OCSE sono aumentate di 5.700.000 barili per complessivi 2.872.000.000 barili, lievemente oltrepassando la media degli ultimi 5 anni;
3. Il 19 dicembre, nonostante le preoccupazioni espresso dal Presidente Donald Trump in merito ad un eventuale crollo del mercato finanziario statunitense, la FED ha innalzato il range del saggio di interesse overnight di 25 punti base, portandolo dal 2-2.25% al 2.25-2.50%. L’effettivo rischio di una bolla finanziaria, in aggiunta alle tensioni commerciali ancora esistenti tra le due super potenze economiche, gli Stati Uniti d’America e la Cina, potrebbero determinare un indebolimento della domanda di energia nel 2019;
4. Il ruolo della finanza. Diversi Hedge Funds (Fondi Coperti) stanno incrementando le loro scommesse ribassiste soprattutto, nei confronti del benchmark Brent.
Il 7 dicembre, il cosiddetto gruppo OPEC+ guidato dall’Arabia Saudita e dalla Federazione Russa ha deciso di tagliare la propria produzione di 1.200.000 b/g per un periodo di 6 mesi, a partire dal 1° gennaio 2019. Se i Paesi produttori desiderano effettivamente ridurre la volatilità che ha caratterizzato il prezzo del barile nella seconda metà del 2018, essi devono implementare tale accordo quanto prima. Il fatto che l’Arabia Saudita abbia tagliato le proprie esportazioni di circa 500.000 b/g a dicembre per complessivi 7.253.000 b/g pare essere un inizio promettente.
di Demostenes FlorosA novembre, il forte andamento ribassista dei prezzi del petrolio è proseguito. Nello specifico, la qualità Brent North Sea ha aperto le quotazioni a 72,75 $/b e le ha chiuse a 59,23 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha iniziato scambiando a 63,65 $/b, per poi chiudere a 50,82 $/b.
In dettaglio, i prezzi del barile sono diminuiti in virtù delle seguenti ragioni:
1. Versante domanda - Il persistente conflitto commerciale tra gli Stati Uniti d’America e la Cina sta rallentando la crescita dell’economia globale;
2. Versante offerta - Gli Stati Uniti hanno esonerato 8 Paesi, tra i quali la Cina che attualmente è il principale importatore di greggio al mondo, dall’acquisto di petrolio iraniano;
3. Versante offerta - Gli Stati Uniti d’America, l’Arabia Saudita, e la Federazione Russa hanno aperto i loro rubinetti alla massima velocità. Nello specifico, grazie alla tecnica del fracking, gli USA hanno raggiunto l’output di 11.700.000 b/g a novembre, l’Arbia Saudita ha estratto 10.700.000 b/g il mese precedente, mentre la Federazione Russa ha toccato il nuovo record post sovietico di 11.410.000 b/g a ottobre, in rialzo rispetto agli 11.360.000 b/g a settembre;
4. Versante offerta - Le scorte commerciali USA sono aumentate per la decima settimana di seguito, incrementando da 426.004.000 barili il 26 ottobre, a 450.485.000 barili il 23 novembre (data di pubblicazione 5 giorni dopo).
“L’aspetto [attualmente] più importante nel mercato del petrolio è la volatilità”, ha affermato il direttore esecutivo dell’International Energy Agency, Fatih Birol, nel corso di una conferenza tenutasi a Oslo, il 20 novembre. “In virtù dell’incremento delle pressioni geopolitiche che stiamo osservando sui mercati del greggio, riteniamo che stiamo entrando in un periodo caratterizzato da un’incertezza che non ha precedenti”. Indipendentemente dalle decisioni che verranno prese a Vienna durante il prossimo meeting dell’OPEC, tale incertezza difficilmente verrà meno nei mesi a venire. Per il momento, le quotazioni dei prezzi del petrolio attorno ai 60 $/b sono “assolutamente eccellenti” ha affermato il presidente russo, Vladimir Putin. “Se sarà necessario, siamo in contatto con l’OPEC, e proseguiremo questo lavoro comune”, ha aggiunto, prima che il Presidente statunitense, Donald Trump, cancellasse il loro incontro previsto nel corso del G20 di Buenos Aires.
di Demostenes FlorosA ottobre, i prezzi del petrolio sono fortemente diminuiti di circa 10,5 $/b. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le negoziazioni quotando 84,95 $/b e ha chiuso a 74,59 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto a 75,45 $/b per poi chiudere a 64,98 $/b.
Il 3 ottobre, il petrolio ha raggiunto il massimo da quattro anni a questa parte, rispettivamente scambiando a 85,92 $/b e a 76,22 $/b, in virtù di una diminuzione della capacità petrolifera produttiva inutilizzata. Dopodiché, i prezzi sono costantemente calati.
Tale crollo è stato determinato da una serie di fattori, tra i quali:
1. Lato dell’offerta. Secondo i dati pubblicati dall’Energy Information Administration, le scorte commerciali USA sono aumentate da 395.989.000 di barili il 21 settembre a 426.004.000 di barili il 26 ottobre (la pubblicazione dei dati avviene dopo 5 giorni) soprattutto, perché i raffinatori stanno rallentando la loro attività a causa dei lavori di manutenzione. Trattasi della serie di incrementi più lunga dall’inizio del 2017 (6 settimane di seguito);
2. Lato della domanda. In conformità con le stime fornite dall’Oil Market Report il 12 ottobre, l’International Energy Agency ha tagliato le previsioni di crescita della domanda di petrolio 2018/19 di 110.000 barili a causa delle crescenti tensioni che ruotano attorno all’economia globale (guerre commerciali, tariffe, alti prezzi del greggio, apprezzamento del dollaro con possibile effetto negativo sulle economie emergenti). Le nuove stime prevedono quindi un incremento di 1.300.000 b/g nel 2018 e di 1.400.000 b/g nel 2019;
3. Finanza. In base alle cifre della U.S. Commodity Futures Trading Commission, le posizioni lunghe nette – cioè, la differenza tra le scommesse al rialzo e quelle al ribasso – sono calate del 14% nella settimana del 16 ottobre per entrambe le qualità petrolifere.
Ciò detto, il principale fattore che ha determinato il trend ribassista del barile è stato fornito dal Ministro del petrolio saudita, Khalid al Falih, il quale ha affermato il 23 ottobre scorso che l’OPEC e i suoi alleati sono in modalità “produrre il più possibile”.
Intanto, l’output dell’Arabia Saudita ha raggiunto i 10.700.000 b/g – poco al di sotto del massimo di sempre – più che controbilanciando le interruzioni estrattive verificatesi in Venezuela e Iran, il cui export è diminuito a 1.800.000 b/g a settembre (-26%).
di Demostenes FlorosA settembre, i prezzi del barile sono significativamente aumentati di circa 4 $/b. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le negoziazioni a 78,01 $/b e le ha chiuse a 82,75 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto le transazioni a 69,64 $/b, chiudendole a 73,43 $/b.
Nello specifico, durante la prima settimana del mese, entrambe le qualità di riferimento del mercato petrolifero hanno raggiunto il minimo mensile, rispettivamente quotando 76,71 $/b il 6 settembre e 67,45 $/b il 7 settembre, in virtù di una serie di dati che indicavano come il mercato fosse sufficientemente rifornito, nonostante il calo produttivo di Venezuela e Iran. Dopodiché, i prezzi del barile hanno imboccato un trend rialzista a causa dei seguenti fattori:
1. In conformità con i dati dell’Energy Information Administration, le scorte commerciali USA sono decresciute da 401.490.000 barili il 31 agosto a 394.137.000 barili il 14 settembre, il minimo da febbraio 2015;
2. Dopo aver raggiunto un nuovo massimo produttivo di circa 11.100.000 b/g, la crescita dell’estrazione non convenzionale USA di petrolio è prevista arrestarsi. L’EIA ha infatti tagliato le stime dell’output per gli anni 2018/19;
3. Le sanzioni USA imposte all’Iran a maggio 2018, le quali stanno già colpendo l’export di greggio iraniano, nonostante esse non entreranno in vigore sino al prossimo 4 novembre.
Sulla scia dell’OPEC + meeting tenutosi in Algeria lo scorso 22/23 settembre, il benchmark europeo e asiatico, così come quello americano, hanno raggiunto il loro massimo da 4 anni a questa parte il 28 settembre dal momento che l’OPEC + – guidato dall’Arabia Saudita e dalla Federazione Russa – ha ritenuto inopportuno un incremento dell’offerta petrolifera, venendo quindi meno alle numerose richieste provenienti dal Presidente degli Stati Uniti d’America.
Per di più, anche le reiterate minacce espresse da Donald Trump nei confronti dell’Iran nel corso del suo intervento all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso 25 settembre hanno contribuito all’aumento dei prezzi del barile.
di Demostenes FlorosAd agosto, i prezzi del petrolio sono aumentati. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le negoziazioni a 72,53 $/b e le ha chiuse a 77,8 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto le transazioni a 67,79 $/b, concludendo a 70,01 $/b.
Nel corso della prima metà del mese, sia il Brent, sia il WTI sono stati scambiati ai minimi da dieci settimane a questa parte, per le seguenti ragioni:
1. Le ritorsioni della Cina alle misure economiche degli USA hanno acuito le tensioni tra le due principali superpotenze economiche, il che potrebbe influenzare la futura domanda di petrolio;
2. La forte svalutazione della Lira turca potrebbe condurre il paese alla recessione con conseguente ricaduta sulla domanda petrolifera;
3. Secondo l’Oil Monthly Report pubblicato dall’International Energy Agency il 10 agosto, “le preoccupazioni attinenti la stabilità dell’offerta si sono in parte raffreddate per lo meno, al momento. Sono stati registrati incrementi nella produzione soprattutto, da parte dell’Arabia Saudita e dalla Russia, oltre una parziale, ma fragile ripresa in Libia”;
4. In conformità con lo U.S. Energy Information Administration, le scorte di greggio statunitensi sono aumentate di 6.810.000 barili, passando da 407.389.000 barili a 414.194.000 barili.
Nello specifico, il 15 agosto, il riferimento asiatico ed europeo ha toccato il minimo a 70,83 $/b. Il giorno successivo, la qualità americana è calata a 64,83 $/b, il prezzo più basso registrato nell’intero mese.
Durante la seconda metà di agosto, i prezzi del barile sono invece fortemente aumentati in virtù dei seguenti aspetti:
1. Il crollo delle esportazioni iraniane, che sono calate da 2.320.000 b/g a luglio a 1.680.000 b/g (stime preliminari di Platts) a metà agosto, in aggiunta agli scioperi verificatisi nei giacimenti della Total, siti nel Mare del Nord, potrebbero frenare l’offerta;
2. Il calo delle scorte commerciali USA, diminuite da 414.194.000 barili a 405.792.000 barili;
3. Il deprezzamento del biglietto verde che ha reso gli asset denominati in dollari più attraenti per gli investitori. In particolare, la valuta americana ha perso terreno nei confronti dell’euro, deprezzandosi da 1,1321 €/$ il 15 agosto a 1,171 €/$ il 28 agosto.
In merito alle esportazioni dell’Iran, è interessante evidenziare che le importazioni dell’India dalla Persia sono decresciute da 700.000 b/g a luglio agli attuali 200.000 b/g, a causa dei timori dovuti alle cosiddette sanzioni secondarie imponibili dagli Stati Uniti.
Al contrario, la Cina – che è il primo acquirente di petrolio iraniano (l’India era il secondo) – non ha minimamente ridotto le proprie importazioni da Teheran mentre le prime consegne di greggio alla Cina grazie ai contratti petro-yuan sono fissate per settembre.
A luglio, il prezzo del petrolio è significativamente diminuito. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le negoziazioni a 77,4 $/b e le ha chiuse a 74,2 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto le transazioni a 74,03 $/b, chiudendole a 67,45 $/b.
Sia il benchmark europeo e asiatico, sia quello americano hanno raggiunto il massimo mensile il 10 luglio, rispettivamente quotando 78,88 $/b e 74,16 $/b (prossimo al record nel corso degli ultimi 3 anni). L’International Energy Agency ha messo in luce che ciò potrebbe essere stato dovuto a causa dei timori relativi all’eventualità che l’incremento dell’offerta deciso dal gruppo OPEC + il 23 giugno non fosse sufficiente al fine di controbilanciare le perdite provenienti dal Venezuela e dall’Iran.
Infatti, secondo l’IEA, la capacità produttiva del Venezuela potrebbe decrescere di 1.000.000 b/g entro la fine del 2018 (- 40%). Parallelamente, i carichi iraniani con destinazione l’Europa sono già crollati del 50% a causa delle sanzioni USA.
L’11 luglio inoltre, le dichiarazioni del Presidente statunitense, Donald Trump, secondo il quale la Germania sarebbe “prigioniera” della Russia in merito all’approvvigionamento di gas naturale, non hanno fatto altro che esacerbare ulteriormente le tensioni geopolitiche.
In realtà, la Germania non è attualmente dipendente dal gas russo più di quanto non lo fosse nel passato. Ad oggi, la Federazione Russa fornisce il 40% circa delle importazioni gasiere tedesche, ma tale percentuale era ben più alta durante la Guerra Fredda (Germania Ovest).
In aggiunta, nel corso del 2017, gli Stati Uniti hanno importato dalla Russia una media di 384.000 b/g di greggio e prodotti derivati (il 3,8% delle importazioni totali). Secondo Oilprice.com, ipotizzando un prezzo medio di 50 $/b, ciò significa che gli USA hanno speso 7 miliardi $ per il petrolio russo.
Nel corso della seconda decade di luglio, i prezzi di entrambe le qualità petrolifere sono diminuiti. Il 17 luglio, essi hanno rispettivamente raggiunto 71,6 $/b e 67,64 $/b a causa dei seguenti fattori:
1. Libia, Nigeria e Canada sono riusciti ad incrementare il proprio output;
2. La guerra commerciale tra gli USA e la Cina potrebbe influenzare negativamente la domanda di petrolio nel corso della seconda metà dell’anno corrente;
Alla fine del mese, il differenziale di prezzo tra il Brent e il WTI ha oltrepassato i 6,5 $/b. Con ogni probabilità, ciò è accaduto perché l’Arabia Saudita ha sospeso alcune spedizioni attraverso uno dei principali transiti nel Mare Rosso. Tale situazione ha influenzato maggiormente il benchmark europeo e asiatico rispetto a quello americano.
Dopo essersi ritirato dall’accordo sul nucleare iraniano raggiunto nel 2015, il Presidente statunitense, D. Trump, il 31 luglio ha affermato che sarebbe stato favorevole ad incontrare il Presidente iraniano, Hassan Rouhani, “senza pregiudiziali”.
Sulla scia del meeting Trump/Putin avvenuto in Helsinki a metà giugno, l’impressione è che i principali avvenimenti geopolitici potrebbero avere un effetto ribassista sul prezzo del barile nel corso della seconda metà del 2018.
“Se volessero, potrei certamente incontrare gli iraniani” ha affermato D. Trump il 30 luglio durante una conferenza congiunta alla Casa Bianca con il Primo Ministro italiano, Giuseppe Conte. “Non so se sono pronti. Stanno vivendo tempi duri” ha aggiunto.
di Demostenes FlorosNonostante la decisione di incrementare la produzione di petrolio di 1.000.000 b/g raggiunta dal cosiddetto gruppo OPEC+ durante il meeting di Vienna del 22/23 giugno, i prezzi del barile sono comunque aumentati. In particolare modo, il benchmark WTI ha guadagnato all’incirca 7,5 $/b.
La qualità Brent North Sea ha aperto le negoziazioni a 76,76 $/b e le ha chiuse a 77,75 $/b, mentre il West Texas Intermediate le ha aperte a 65,75 $/b, chiudendo a 73,34 $/b (il massimo dal 2014). Sia il benchmark europeo e asiatico, sia quello americano hanno toccato il minimo mensile il 18 giugno, rispettivamente quotando 73,03 $/b e 64,15 $/b.
Con ogni probabilità, la produzione di petrolio crescerà di 700.000 b/g dal momento che membri come l’Iran, il Venezuela, la Libia – il cui output, a maggio, è diminuito da 1.000.000 b/g a 750.000 b/g – e Nigeria non saranno in grado di incrementare le proprie estrazioni a causa di problemi riconducibili alle sanzioni, alla crisi economica e ai conflitti geopolitici.
In realtà, la produzione corrente è minore rispetto a quella stabilita a novembre 2016 quindi, l’aumento di 1.000.000 b/g dovrebbe approssimativamente riportarla al livello precedentemente fissato.
L’incremento di prezzo da parte delle due principali qualità di petrolio a livello globale è stato di differente intensità. Infatti, il WTI è fortemente aumentato per le seguenti ragioni:
1. Il trend decrescente delle scorte commerciali USA. Nello specifico, quest’ultime sono diminuite da 436.584.000 di barili il 1° giugno a 416.636.000 di barili il 22 giugno.
“Il differenziale tra il WTI e il Brent si sta restringendo nella misura in cui l’aumento produttivo dell’OPEC sta avendo un impatto maggiore sul Brent rispetto al WTI”, ha affermato Hong Sungki, commodities trader presso la NH Investment & Securities Co. “Le scorte al Cushing stanno velocemente calando dal momento che la stagione estiva incrementa la domanda di greggio da parte delle raffinerie, così sostenendo i prezzi del WTI”;
2. In Canada – a causa di un problema all’impianto Syncrude – il quale è collegato al terminal di Cushing in Oklahoma, il principale punto di consegna del WTI negli Stati Uniti d’America – l’offerta potrebbe calare di almeno 360.000 b/g fino al prossimo agosto.
Nei giorni precedenti la riunione dell’OPEC+, il Ministro del Petrolio iraniano, Bijan Namdar Zangeneh, ha sostenuto che il suo paese avrebbe rigettato qualsiasi accordo volto ad aumentare la produzione del gruppo. Dal momento che l’Iran non sarà in grado di accrescere le proprie estrazioni nei mesi a venire, probabilmente il suo scopo era quello di fare pressioni sugli altri membri dell’OPEC affinché quest’ultimi non incrementassero l’output pro capite oltre i limiti prestabiliti a novembre 2016, evitando così di conquistare quote di mercato iraniane. Ad ogni modo, da un punto di vista strettamente politico, l’Iran può fare affidamento solo sul sostegno della Federazione Russa – la cui produzione però, secondo Interfax, pare abbia già raggiunto gli 11.090.000 b/g durante la prima settimana di giugno, 143.000 b/g in più rispetto al tetto deciso alla fine del 2016 – mentre gli Stati Uniti d’America stanno esplicitamente premendo sull’Arabia Saudita allo scopo di innalzare le estrazioni di Riad di 2.000.000 b/g.
Con ogni probabilità, il Presidente USA, Donald Trump, il quale pare essere alquanto entusiasta nel volere risolvere una serie di dispute diplomatiche con l’omologo russo, Vladimir Putin, affronterà il tema sopracitato nel corso del meeting bilaterale fissato per il prossimo 16 luglio a Helsinki.
di Demostenes FlorosA maggio, il differenziale di prezzo tra i due principali benchmark petroliferi ha oltrepassato gli 11 $/b – il che rappresenta il record negli ultimi tre anni – a causa della crisi iraniana e dell’aumento della produzione di tight oil statunitense. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le transazioni a 73,07$/b e le ha chiuse a 77,62 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto le negoziazioni a 67,47 $/b, chiudendole a 66,99 $/b.
Il 23 maggio, il benchmark europeo e asiatico ha raggiunto i 79,71 $/b, il livello più alto da novembre 2014, mentre il riferimento americano ha toccato il massimo di 72,63 $/b il 21 maggio.
Il forte trend ascendente verificatosi nel corso delle prime tre settimane del mese è stato la diretta conseguenza di fattori riconducibili alla geopolitica e allo stato dell’offerta petrolifera:
1. L’8 maggio, il Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, ha dichiarato il ritiro del proprio paese dal Joint Comprehensive Plan of Action, il cui scopo era quello di regolare le attività nucleari dell’Iran, ed ha inoltre introdotto nuove sanzioni contro Teheran;
In merito al mercato del greggio, gli analisti stimano che queste misure potrebbero comportare una diminuzione dell’export iraniano tra i 200.000 b/g e 1.000.000 b/g. Al momento, l’Iran esporta 2.400.000 b/g;
2. Il 18 maggio, per la seconda settimana di seguito, le scorte commerciali USA sono decresciute, passando da 435.955.000 barili a 432.354.000 barili;
3. Nel contempo, secondo un report della Barclays, la produzione di greggio venezuelano scenderà al di sotto di 1,000,000 b/g nei mesi a venire a fronte di 1.500.000 b/g estratti ad aprile;
4. Il 22 maggio, in seguito alla rielezione di Nicolas Maduro a Presidente, D. Trump ha imposto nuove sanzioni anche contro il Venezuela. Nello specifico, il Presidente USA ha proibito al sistema finanziario Occidentale di acquistate, sia titoli di debito emessi da Caracas, sia titoli della Petroleos de Venezuela SA, la compagnia petrolifera statale del paese Latinoamericano.
Nel corso dell’ultima settimana di maggio, il costo del barile è diminuito in virtù dei seguenti fattori:
1. I fondi coperti ha tagliato le proprie posizioni speculative nette di lungo periodo (acquisto). Secondo l’ICE Futures Europe, il 21 maggio, essi hanno ridotto l’esposizione sul Brent del 3,7%, a 548.555 contratti. Nel contempo, in base ai dati dello U.S. Commodity Futures Trading Commission, le posizioni nette sul WTI sono diminuite del 6,2%, a 385,283 stipule;
2. Il 25 maggio, le scorte di greggio USA sono aumentate da 432.354.000 barili a 438.132.000 barili.
In conformità con i dati forniti dall’International Energy Agency, i produttori OPEC e non-OPEC – grazie alla politica dei tagli estrattivi implementata a partire da gennaio 2017 – sono riusciti nell’intento di riassorbire l’eccesso di offerta globale. Infatti, per la prima volta dal 2014, le scorte ammontano ad 1.000.000 barili al di sotto della media degli ultimi 5 anni.
Durante l’International Economic Forum di St. Pietroburgo (SPIEF), svoltosi tra il 24 e il 26 maggio, il Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, ha affermato “non siamo interessati a un rialzo all'infinito del prezzo dell'energia e del petrolio. Se mi chiedeste quale sia un prezzo equo, direi che saremmo completamente soddisfatti di 60 $/b”. Qualsiasi prezzo al di sopra di tale soglia “può creare alcuni problemi per i consumatori, con ripercussioni negative anche per i produttori. Che cosa accadrà in seguito dipende dall'accordo sul nucleare iraniano e dagli effetti che produrrà sul mercato energetico mondiale”.
di Demostenes FlorosAd aprile, i prezzi del petrolio sono significativamente aumentati sulla scia dell’accordo relativo alla diminuzione dell’output deciso dai produttori OPEC e non-OPEC. Nello specifico, in base ai dati forniti dall’International Energy Agency, la conformità dei tagli operati dall’OPEC a marzo ha raggiunto il record del 164% rispetto al 148% di febbraio (cifra rivista al rialzo), mentre il livello di conformità dei 10 produttori non-OPEC è aumentato all’85% lo scorso mese in confronto al 78% di febbraio.
La qualità Brent North Sea ha aperto le transazioni a 68,18 $/b e le ha chiuse a 74,70 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto le negoziazioni a 63,62 $/b, terminando a 68,45 $/b.
Il 6 aprile, sia il benchmark europeo e asiatico, sia il riferimento americano hanno toccato il minimo del mese rispettivamente quotando 66,89 $/b e 61,63 $/b, in virtù dell’apprezzamento del dollaro (1,2234 €/$).
Il 23 aprile, entrambe le miscele hanno raggiunto il massimo mensile, il Brent prezzando a 75,04 $/b – il massimo in 4 anni – e il WTI a 68,90 $/b – il massimo da dicembre 2014 – dopo che in Yemen le forze houthi spalleggiate dall’Iran hanno lanciato un missile contro l’Arabia Saudita, mentre le forze capeggiate dalla Petromonarchia hanno ucciso un leader dei cosiddetti ribelli. Nel contempo, il differenziale di prezzo tra le due principali qualità si è ampliato sino a 6,14 $/b, il massimo da gennaio 2018.
Ad aprile, il mercato del petrolio è stato caratterizzato, sia da fattori rialzisti, sia ribassisti:
Fra quest’ultimi:
1. In conformità con le stime dell’Energy Information Administration, l’output USA ha oltrepassato i 10.500.000 b/d (dati settimanali);
2. In base alle previsioni dell’EIA, le scorte di greggio USA sono inaspettatamente incrementate dai 425.332.000 barili del 30 marzo, ai 429.737.000 barili del 20 aprile;
3. L’apprezzamento del dollaro. In particulare, nei confronti dell’euro, il biglietto verde ha aperto a 1,2308 €/$ il 3 aprile e chiuso a 1,2079 €/$ il 30 aprile (massimo mensile il 27 aprile, a 1,2070 €/$).
In merito ai fattori rialzisti invece, i quali hanno chiaramente prevalso rispetto ai ribassisti nell’influenzare il prezzo del barile, evidenziamo i seguenti:
1. Attualmente, le scorte dei paesi OSCE sono solo 30.000.000 barili sopra la media degli ultimi 5 anni. Esse erano 300.000.000 al di sopra di tale livello quando i produttori OPEC e non-OPEC iniziarono i loro tagli, il 1° gennaio 2017.
L’ammontare totale delle scorte petrolifere dell’OCSE è calato a 2.841.000.000 barili;
2. Le preoccupazioni relative alla possibile guerra commerciale tra Stati Uniti d’America e Cina;
3. Il doppio attacco militare statunitense alla Siria, avvenuto il 14 e 30 aprile;
4. Le tensioni attorno al tema del nucleare iraniano dopo l’incontro tra il Presidente USA, Donald Trump, e quello francese, Emmanuel Macron, il 24 aprile scorso.
“I mercati petroliferi sono strettamente legati alle tensioni geopolitiche, soprattutto se interessano il Medio Oriente, che rappresenta il cuore delle esportazioni di petrolio a livello globale”, ha dichiarato Fatih Birol, direttore esecutivo dell’IEA, a Bloomberg Television. “Se le tensioni non si allentano, continueranno a impattare sul mercato petrolifero e sui relativi prezzi. E sicuramente questo sarà un fattore che indurrà un rialzo dei prezzi”.
Tenuto conto che il ribilanciamento del mercato è prossimo dall’essere raggiunto, lo storico accordo che le due Corree stanno perseguendo non solo potrebbe contribuire ad un processo di de-escalation delle tensioni internazionali, bensì favorire un auspicabile calo dei prezzi del barile.
di Demostenes FlorosA marzo, i prezzi del petrolio sono aumentati in maniera significativa (oltre il 5%) sulla scia dei tagli concernenti l’accordo tra i produttori OPEC/non-OPEC – la cui conformità ha raggiunto il 138% a febbraio – e delle tensioni riguardanti il commercio globale sollevatesi tra gli Stati Uniti d’America, la Cina e l’Unione europea. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le contrattazioni a 64,15 $/b e le ha chiuse a 69,67 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto a 61,34 $/b, chiudendo a 65,14 $/b.
Il 23 marzo, nonostante le estrazioni di greggio statunitensi avessero raggiunto i 10.407.000 b/g – record dal 1970 – sia il Brent, sia il WTI hanno toccato il massimo mensile rispettivamente quotando 70,36 $/b e 65,80 $/b. Il trend ascendente del barile registrato nel corso degli ultimi 10 giorni del mese è stato determinato da tre fattori accaduti simultaneamente.
Nello specifico, il 21 marzo:
1. Dopo che le scorte di greggio USA erano incrementate di 5.220.000 barili a causa dei lavori di manutenzione delle raffinerie, esse sono inaspettatamente diminuite di 2.622.000 barili, il maggiore decremento dall’inizio di gennaio 2018. In base ai dati forniti dall’Energy Information Administration, le scorte sono così scese al di sotto della media degli ultimi 5 anni per la prima volta dal 2014. Il 28 marzo, sono nuovamente incrementate di 1.640.000 barili, contribuendo ad ampliare il differenziale di prezzo tra le qualità Brent e WTI oltre i 5 $/b;
2. Il Governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, ha affermato che “il mercato del lavoro ha continuato a rafforzarsi e che l’attività economica è cresciuta a un ritmo moderato”. Il Prodotto Interno Lordo USA è cresciuto del 2,5% durante il IV trimestre del 2017. Per queste ragioni, la FED ha alzato i tassi di interesse di 25 punti base, portandoli a 1,50/75%;
3. L’incontro tra il Presidente statunitense, Donal Trump, e il Principe saudita, Mohammed Bin Salman, ha riacceso le tensioni attorno alla possibile riapertura della crisi iraniana. Secondo FGE, la ripresa delle sanzioni unilaterali USA contro l’Iran potrebbe determinare un crollo delle esportazioni persiane stimato tra i 250.000/500.000 b/g entro la fine dell’anno in corso. Inoltre, anche la nomina di John Bolton – il quale fu contrario alla stipula dell’accordo sul nucleare iraniano – a Consigliere Nazionale sulla Sicurezza ha avuto un impatto rialzista sui prezzi.
A febbraio, le scorte OSCE sono diminuite di 44.000.000 barili sotto la media degli ultimi 5 anni. A gennaio 2017, all’inizio dell’intesa OPEC/non-OPEC, quest’ultime erano 293.000.000 barili al di sopra della medesima soglia. Dunque, alle condizioni attuali, il mercato del petrolio rientrerà in equilibrio tra il II e il III trimestre del 2018. Tuttavia, Bloomberg evidenzia correttamente che “anni di approvvigionamenti eccessivi fanno sì che la misura sia di per sé più alta del normale, mentre la natura frammentata dei dati al di fuori dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD) rende difficile ottenere un quadro accurato dell’intero mercato mondiale”.
di Demostenes FlorosA febbraio, i prezzi del petrolio sono significativamente diminuiti di circa 5$/b. Nello specifico, il 1° febbraio, il North Sea Brent e il West Texas Intermediate quotavano rispettivamente 69,75$/b e 66,01$/b. Il 28 febbraio, il benchmark europeo e asiatico prezzava 64,66$/b, mentre la miscela americana veniva scambiata a 61,55$/b.
Il 13 febbraio, entrambe le qualità hanno raggiunto il minimo mensile, il Brent quotando a 62,60$/b e il WTI a 58,87$/b. Tale andamento ribassista è stato dovuto dai seguenti fattori economici e finanziari:
1. Nel corso della settimana conclusasi il 30 gennaio, le posizioni nette speculative di breve periodo (vendita) sono incrementate del 6,3% per 39.127 contratti;
2. Durante la prima settimana di febbraio, il numero totale delle trivelle attive negli Stati Uniti è aumentato di 29 unità;
3. L’8 febbraio, il dollaro si è apprezzato nei confronti dell’euro, quotando 1,2253 €/$;
4. Il 9 febbraio, la produzione statunitense ha raggiunto i 10.271.000 b/g. Il Direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, Fatih Birol, ha affermato che la “crescita esplosiva” delle estrazioni USA potrebbe protrarsi oltre l’anno corrente.
Nel corso della seconda metà del mese, i prezzi hanno ripreso a crescere in virtù delle seguenti ragioni:
1. Il deprezzamento del dollaro. Il 15 febbraio, il tasso di cambio euro/dollaro ha prezzato 1,2493 €/$, stimolando la domanda di commodities denominate nella valuta statunitense;
2. Il calo delle scorte di petrolio nei paesi OCSE;
3. L’aumento delle esportazioni petrolifere USA, le quali hanno approssimativamente raggiunto 2.000.000 b/g, il massimo da ottobre 2017;
4. Il 23 febbraio, è stata interrotta la produzione del pozzo El-Feel, in Libia (-70.000 b/g), a causa di proteste;
Durante gli ultimi giorni del mese, un nuovo apprezzamento del dollaro, il quale ha raggiunto il massimo mensile nei confronti dell’euro (1,2214 €/$ il 28 febbraio), in aggiunta alla crescita delle scorte USA (+3.020.000 barili nel corso dell’ultima settimana) hanno contribuito ad un calo dei prezzi.
Il 12 febbraio, Il Ministro degli Emirati Arabi Uniti, Suhail Al Mazrouei, l’attuale Presidente dell’OPEC, ha affermato che “Il petrolio di scisto sta per tornare sul mercato, e ci si attende che lo farà con maggiore forza rispetto al 2017; perciò dobbiamo essere vigili. Comunque, tutto considerato, non ritengo che causerà grandi distorsioni”.
In verità, come messo in evidenza da Bloomberg il 18 febbraio, il problema principale dell’OPEC consiste nell’effettiva capacità dell’Organizzazione di stimare in maniera corretta le scorte al di fuori dei membri dell’OSCE, i quali già oggi contribuiscono per circa la metà dei consumi mondiali di petrolio e, secondo le più recenti stime, contribuiranno per l’80% della crescita della domanda nel 2018.
È probabilmente per questa ragione che il Ministro del Petrolio saudita, Khalid A. Al-Falih, il 19 febbraio ha affermato che, “Se sarà necessario sbilanciare il mercato per un po’ di tempo, lo faremo”.
Nel corso del primo mese del 2018, i prezzi del petrolio sono aumentati in quanto l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio – capitanati dall’Arabia Saudita – e i produttori non-OPEC – guidati dalla Federazione Russa – hanno rispettato i tagli produttivi ad un tasso del 125% a dicembre, in aumento rispetto al 122% del mese precedente. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le negoziazioni a 66,57 $/b e le ha chiuse a 69,05 $/b, mentre la miscela West Texas Intermediate ha aperto a 60,37 $/b, chiudendo a 64,73 $/b. Il 24 gennaio, il benchmark europeo e asiatico ha raggiunto i 70,75 $/b, record da gennaio 2014, mentre il riferimento americano ha toccato i 66,12 $/b il 26 gennaio, il massimo negli ultimi 37 mesi. Il modesto decremento dei prezzi del barile verificatosi nel corso dell’ultima settimana di gennaio è stato causato da un incremento del numero delle trivelle attive negli USA (11) e dalle scorte statunitensi (6.780.000 barili) quest’ultime, per la prima volta da novembre 2017. Nel complesso, il trend mensile ascendente del petrolio è stato determinato da un insieme di fattori economici e geopolitici, tra i quali:
1. In conformità con i dati pubblicati dall’International Monetary Fund il 23 gennaio nel corso del Forum di Davos in Svizzera, l’economia mondiale si espanderà ad un tasso del 3,7% nel 2018, con l’effetto di supportare la domanda di “oro nero”. Infatti, in base alle stime rilasciate dall’International Energy Agency il 9 gennaio, la domanda globale di petrolio è prevista in aumento di 1.700.000 b/g, sia nel 2018, sia nel 2019, dopo essere cresciuta di 1.400.000 b/g nel 2017.
2. In base ai dati settimanali diffusi dalla U.S. Energy Information Administration, le scorte americane di greggio sono calate da 424.462.000 barili il 29 dicembre 2017, a 411.583.000 barili il 19 gennaio 2018 (minimo da febbraio 2015), in virtù del più alto incremento del tasso di attività delle raffinerie registratosi durante l’ultimo decennio. Nello specifico, le scorte statunitensi sono calate per dieci settimane di fila, la serie temporalmente più lunga mai registrata (il massimo ammontare da dicembre 2014). Dopodiché, il greggio USA stoccato nei vari serbatoi e terminali del paese è balzato all’insù di 6.780.000 barili il 26 gennaio. Anche le giacenze commerciali OCSE sono diminuite, passando da 137.000.000 barili sopra la media degli ultimi 5 anni, agli attuali 133.000.000 barili.
3. Secondo i dati mostrati dalla Commodity Futures Trading Commission, i fondi coperti hanno incrementato le proprie posizioni speculative nette sul WTI del 2,9% (496.111 contratti tra futures e opzioni) durante la settimana terminata il 23 gennaio, il massimo dal 2006. Nel contempo, le posizioni speculative nette sul Brent sono aumentate del 2,4% (584.707 contratti), record da sempre.
4. In conformità con il Bloomberg Spot Dollar Index, il dollaro USA si è deprezzato per la settima settimana di fila, il declino più lungo dal 2010.
5. Da ultimo, ma non per questo meno importanti, gli aspetti attinenti la geopolitica. Di fatto, i tumulti verificatisi all’inizio dell’anno in Iran (il terzo produttore OPEC), in aggiunta ai problemi economici del Venezuela che stanno avendo ricadute pesanti in termini di mantenimento dell’output e dell’export, hanno contribuito nel sostenere la crescita dei prezzi. In particolare, nel paese Latinoamericano, l’estrazione di petrolio ha raggiunto 1.160.000 b/g a dicembre, il minimo da 30 anni. Il deprezzamento del dollaro, in aggiunta al ruolo rialzista giocato dai fondi coperti, hanno concorso nel determinare il forte recupero del benchmark USA, facendo sì che il differenziale di prezzo Brent/WTI si restringesse a circa 4 $/b alla fine di gennaio, il minimo da agosto 2017. Nonostante i recenti incrementi di prezzo, i tagli decisi dagli estrattori OPEC e non-OPEC a novembre 2016 e rinnovati a novembre 2017 proseguiranno fino alla fine dell’anno corrente oppure si interromperanno a metà 2018 in virtù del conseguito ribilanciamento del mercato come paiono insinuare alcune voci di corridoio? Il 13 gennaio, il Ministro del Petrolio iracheno, Jabbar al-Luaibi, ha affermato: “Alcune fonti in varie parti del mondo sostengono che il mercato sia di nuovo in crescita, che i prezzi stanno salendo e che di conseguenza è giunto il momento di sospendere i tagli alla produzione. Si tratta di una conclusione errata, con cui non concordiamo”. Non ci rimane che attendere!
A dicembre, i prezzi del petrolio sono aumentati sulla scia dell’estensione dell’accordo tra i produttori OPEC/non-OPEC. Il livello di conformità con i tagli precedentemente prestabiliti è cresciuto al 115% a novembre, portando la media nei primi 11 mesi del 2017 al 91%. Nello specifico, la qualità Brent North Sea ha aperto le negoziazioni a 63,70 $/b e le ha chiuse a 66,62 $/b – il record da maggio 2015 – mentre il West Texas Intermediate ha aperto prezzando 58,36 $/b, per poi chiudere a 60,25 $/b – il massimo da giugno 2015.
Il 6 dicembre, sia il benchmark europeo e asiatico, sia la miscela americana hanno toccato il minimo mensile, rispettivamente quotando 61,26 $/b e 55,97 $/b. In base alle statistiche pubblicate dallo U.S. Energy Information Administration, nonostante si sia verificato un calo delle scorte di greggio per un ammontare pari a 5.600.000 barili, le giacenze di Distillate Fuel Oil sono invece incrementate di 1.700.000 barili e le Total Motor Gasoline di 6.800.000 barili con la conseguenza che alcuni hedge funds hanno liquidato le loro posizioni.
Di seguito, i diversi fattori finanziari e geopolitici che hanno determinato il trend ascendente del prezzo del barile:
1. L’11 dicembre, il North Sea Forties Pipeline System (FPS) ha interrotto le forniture a causa di una rottura. L’FPS è ritornato in funzione a partire dal 30 dicembre;
2. Il ruolo della finanza. Nel corso dell’anno appena conclusosi, le scommesse dei fondi coperti sono state le più rialziste di sempre;
3. La debolezza del dollaro;
4. Le riserve di greggio USA ha raggiunto il minimo da luglio 2015;
5. Il 26 dicembre, l’esplosione di un gasdotto in Libia ha ridotto la produzione di circa 100.000 b/g.
Nel corso del 2017, i prezzi del petrolio sono significativamente aumentati rispetto all’anno precedente. In particolar modo, il Brent è incrementato del 17,3%, mentre il WTI del 10,3%. A causa della crescita del fracking statunitense, il mercato presenterà un moderato eccesso dal lato dell’offerta anche nella prima metà del 2018, ma il più importante evento che caratterizzerà il nuovo anno sarà – con ogni probabilità – il lancio del petro-yuan convertibile in oro da parte della Cina.
di Demostenes FlorosA novembre, i prezzi del petrolio sono aumentati sino a raggiungere i massimi da metà 2015. In particolare, la qualità del greggio Brent North Sea ha aperto le contrattazioni a 60,44 $/b e le ha chiuse a 62,71 $/b, mentre la miscela del West Texas Intermediate ha aperto a quota 54,27 $/b per chiudere a 57,45 $/b sulla scia dell’estensione per l’intero 2018 dell’accordo OPEC/non OPEC stipulato a novembre 2016 e in scadenza il 31 marzo 2018.
Inoltre, sono diversi i fattori che hanno contribuito a determinare il trend mensile ascendente del petrolio, tra i quali:
1. In conformità con le stime fornite dall’Oil Market Report, a settembre le scorte nei paesi OSCE sono diminuite di 40.000.000 di barili. Per la prima volta nel corso degli ultimi due anni, le giacenze globali sono scese sotto i 3 trilioni di barili (63.000.000 di barili nel III trimestre 2017);
2. Nonostante l’output di greggio USA abbia raggiunto i 9.682.000 b/g (previsioni settimanali), aumentando del 15% dalla metà del 2016, il prezzo del WTI ha inoltre raggiunto il massimo a 58,81 $/b il 24 novembre a causa della chiusura della pipeline Keystone dovuta ad una perdita. La capacità di Keystone – che connette i bacini di oil sands del Canada con gli Stati Uniti d’America – è di 590.000 b/g.
3. Il costante deprezzamento del dollaro. Il 27 novembre, la valuta americana è giunta a prezzare 1,1952 €/$, il minimo dal 4 settembre 2017 (1,206 €/$);
4. Il cosiddetto Black Friday fiscale cinese. Dal 1 dicembre 2017, la Cina taglierà le tariffe di 187 beni di consumo importati. Le tariffe dei generi alimentari, farmaceutici, cosmetici e abbigliamento diminuiranno da una media attuale del 17,3% al 7,7%. Secondo il quotidiano economico e finanziario MF Milano Finanza, “il lungo viaggio di Donald Trump in Asia sta facendo sentire gli effetti”;
5. Le tensioni geopolitiche in Medio Oriente.
Tenuto conto che il mercato petrolifero è tutt’ora caratterizzato da un eccesso dal lato dell’offerta, la seconda estensione dell’accordo di novembre 2016 – se correttamente implementato nel corso del 2018 – certamente determinerà un ribilanciamento del mercato con prezzi stimati attorno ai 60 $/b.
In base ai dati forniti dall’Outlook 2017 del Fondo Monetario Internazionale, la maggior parte dei membri dell’OPEC – dopo avere profondamente ridimensionato i propri bilanci di Stato – attualmente, ha un prezzo di break-even prossimo alle stime del FMI (in realtà, nel 2017 l’Arabia Saudita necessita di 73,1 $/b).
Da un punto di vista strettamente geopolitico, l’impressione è che il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, sia uno dei più influenti player anche tra i membri dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio dopo avere ottenuto la vittoria militare in Siria – la quale creò le precondizioni per l’accordo di novembre 2016.
di Demostenes FlorosIn ottobre, i prezzi del petrolio sono significativamente aumentati di circa 4-5$/b. Un analogo incremento si era verificato anche nel corso del mese di settembre. Nello specifico, la qualità Brent North Sea ha aperto le contrattazioni a 56,10$/b e ha chiuso a 61,18$/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto quotando a 50,90$/b per poi chiudere a 54,88$/b. Il 27 ottobre, per la prima volta da due anni a questa parte, il Brent ha quindi oltrepassato la soglia dei 60$/b.
L’attuale differenziale di prezzo di circa 5-6$/b che sussiste tra il benchmark europeo e asiatico e il riferimento americano è quasi interamente dovuto agli uragani che hanno colpito gli Stati Uniti, il cui effetto principale è stato quello di diminuire la domanda delle raffinerie e, di conseguenza, il prezzo del WTI. Per giunta, è interessante mettere in luce che tale gap di prezzo ha determinato un aumento delle esportazioni di greggio USA, le quali hanno raggiunto i 2.000.000 b/g all’inizio del mese.
Se si esclude il 6 ottobre, quando entrambe le qualità hanno toccata il minimo mensile rispettivamente quotando, 55,52$/b e 49,23$/b nella misura in cui le scorte galleggianti nel Mare del Nord sono incrementate di circa 3.000.000 barili per un totale appena sopra i 5.400.000 barili, il trend ascendente dei prezzi è stato sostanzialmente costante durante l’intero mese a causa delle seguenti ragioni:
1. La crescita dell’output di tight oil USA pare essere meno solida rispetto a quella precedentemente stimata. Di fatto, in conformità con i dati forniti dall’Energy Information Administration il 30 settembre, gli analisti statunitensi hanno rivisto al ribasso la produzione di luglio per un ammontare di 178.500 b/g e quella di giugno per un valore approssimativo di 220.000 b/g;
2. Le scorte globali stanno diminuendo. In particolar modo, dall’inizio del 2017, quelle USA sono calate di 17.000.000 barili mentre erano aumentate di 21.000.000 barili nel 2016;
3.Le tensioni geopolitiche che coinvolgono alcuni produttori OPEC come Libia e Venezuela in aggiunta allo scontro del 16 ottobre tra Baghdad e il governo Regionale del Kurdistan presso la città irachena di Kirkuk;
4. Nel 2017, la domanda di petrolio è prevista in crescita di 1.600.000 b/g;
5. Secondo Bloomberg, il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è sul punto di nominare Jerome Powell come successore dell’attuale Governatore della FED, Janet Yellen, il cui mandato scadrà a febbraio 2018. Powell, che attualmente è un membro del Federal Reserve Board of Governors, garantirà la continuità di una politica monetaria basata su un graduale incremento dei tassi di interesse statunitensi. Sulla scia di questa anticipazione, il dollaro si è indebolito nei confronti dell’euro, deprezzandosi da 1,1785€/$ il 25 ottobre a 1,1638€/$ il 31 ottobre;
In attesa dell’OPEC meeting il prossimo 30 novembre, le difficoltà finanziarie (redditività) che i frackers Nord Americani stanno riscontrando in aggiunta alla volontà saudita e russa di estendere l’accordo di novembre 2016 all’intero 2018 potrebbero contribuire nel sostenere e stabilizzare gli attuali prezzi del barile.
Secondo Kirill Dmitriev, CEO del Russian Investment Fund, la Federazione Russa e l’Arabia Saudita hanno guadagnato 40.000.000.000 $ grazie all’accordo del 2016. Gli sforzi internazionali volti alla stabilizzazione del barile “sono stati redditizi, portando i prezzi del petrolio sopra i $55/b” ha affermato Dmitriev al canale Rossiya 24. “Noi riteniamo che senza tale intesa [la quale verrà meno il 31 marzo 2018], i prezzi sarebbero attualmente al di sotto dei 35$/b”, ha specificato il funzionario russo.
di Demostenes FlorosA settembre, i prezzi del petrolio sono significativamente cresciuti. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le contrattazioni a 52,75$/b e le ha chiuse a 56,68$/b mentre il West Texas Intermediate ha aperto prezzando a 47,34$/b per poi chiudere a 51,54$/b.
Il benchmark asiatico/europeo e il riferimento americano hanno toccato il massimo mensile rispettivamente, il 25 settembre – quotando 59,24$/b, record da 26 mesi ad oggi – e il 26 settembre – prezzando 52,40$/b, il massimo nel corso degli ultimi due anni – sulla scia del referendum sull’indipendenza tenutosi della regione curda dell’Iraq, il cui risultato ha chiaramente messo in luce la volontà di separarsi da Baghdad.
In conseguenza dell’emergere di tale tensione geopolitica, il Presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, ha minacciato di bloccare l’oleodotto – che fornisce approssimativamente 600.000 b/g – proveniente dalla regione autonoma del Kurdistan iracheno fino al porto turco di Ceyhan, mentre Baghdad ha fatto appello per un boicottaggio internazionale delle vendite di greggio curdo.
In aggiunta a questa specifica, ma temporanea causa, tre fattori spiegano il trend ascendente dei prezzi del barile. In particolare:
1. Domanda – Conformemente ai dati forniti dall’International Energy Agency il 13 settembre, la domanda di petrolio è stimata in crescita di 1.600.000 b/g nel 2017 (dato rivisto al rialzo per il terzo mese di fila), raggiungendo i 97.700.000 b/g (+1,7% anno su anno).
L’OPEC Monthly Oil Market Report pubblicato il 12 settembre, conferma tale andamento ascendente anche se per un ammontare minore. Infatti, la domanda di petrolio globale è stimata in crescita di 1.420.000 b/g (stima rivista al rialzo di 50.000.000 b/g);
2. Scorte – In base ai dati forniti dal Weekly Petroleum Status Report pubblicato Energy Information Administration il 22 settembre, le scorte commerciali di greggio statunitensi (ad esclusione di quelle strategiche) sono diminuite di 1.800.000 barili rispetto alla settimana precedente;
3. Esportazioni – Conformemente alle cifre del Monthly Energy Information Administration Report, le esportazioni petrolifere dell’OPEC sono diminuite di 1.300.000 b/g tra luglio e agosto.
Esaminando il trend del prezzo del barile, il decremento del WTI manifestatosi tra l’8 e il 12 settembre è direttamente riconducibile alle conseguenze degli straordinari eventi atmosferici verificatisi nel Golfo del Messico, ad agosto. Di fatto, gli analisti di Goldman Sachs hanno previsto che la diminuzione della domanda di greggio da parte dei raffinatori, in conseguenza degli uragani, potrebbe ammontare a 900.000 b/g in settembre e a 300.000 b/g in ottobre, per uno “shock ribassista per gli equilibri petroliferi mondiali”.
Nei giorni seguenti, la ripresa del prezzo del WTI è stata più lenta rispetto a quella del Brent probabilmente perché i frackers statunitensi, avendo venduto la propria produzione futura (hedging), hanno in questo modo rallentato il trend rialzista. In realtà, la qualità americana ha chiaramente superato la soglia dei 50$/b dopo che l’EIA ha pubblicato che le esportazioni USA avevano raggiunto 1.500.000 b/g.
Nelle sue conclusioni, l’Oil Market Report mette in luce che “sulla base delle scommesse recenti fatte dagli investitori, ci si aspetta che i mercati si restringano e che i prezzi aumentino, anche se modestamente”. Il 26 settembre, nel corso dell’ultimo Federal Open Market Committee, la Governatrice della FED, Janet Yellen, ha espresso serie preoccupazioni in merito alle sopravvalutate stime dell’inflazione e del tasso di disoccupazione statunitensi. Per questo motivo, sussiste un’alta probabilità che l’incremento dei saggi di interesse – attualmente compresi tra l’1/1,25% – rallenti nel corso dei prossimi mesi.
I frackers nordamericani coglieranno l’occasione al volo oppure anche l’Energy Information Administration ha sovrastimato l’output di greggio USA come evidenziato da Harold Hamm, CEO di Continental Resources?
Ad agosto, la qualità di greggio Brent North Sea ha aperto le contrattazioni a 51,52$/b e le ha chiuse a 52,85$/b mentre il prezzo del West Texas Intermediate è invece diminuito da 49,03$/b a 47,11$/b.
Durante la prima parte del mese, sia il prezzo del benchmark europeo e asiatico sia il riferimento americano sono rimasti sostanzialmente stabili. Il 9 agosto, il Brent ha prezzato 52,76$/b sulla scia dei futures rientrati in una condizione di backwardation mentre il WTI ha raggiunto il massimo mensile a 49,81$/b.
In seguito, i prezzi del greggio sono diminuiti e, il 16 agosto, entrambe le qualità hanno raggiunto il loro minimo mensile – il Brent a quota 50,34$/b e il WTI a 46,79$/b – in conseguenza di due fattori: la conformità degli accordi OPEC del novembre 2016 è scesa al 75% mentre la produzione statunitense di petrolio ha oltrepassato i 9.500.002 b/g per la prima volta da luglio 2015. Per di più, quest’ultimo dato chiarisce come mail il trend decrescente del WTI sia stato più marcato rispetto a quello del Brent. Nel corso dell’ultima decade di agosto, mentre il Brent ha recuperato terreno favorito dal deprezzamento del dollaro verso l’euro – 1.2048 €/$ il 29 agosto, il minimo da gennaio 2015 – il WTI non ha avuto il medesimo trend a causa dell’Uragano Harvey che ha colpito il Texas. Di fatto, le interruzioni delle attività delle raffinerie equivalgono ad un calo della domanda di petrolio (-5% rispetto alla terza settimana di agosto). Nel nostro precedente report, scrivemmo che se il prezzo del Brent – ritornato in backwardation alla fine di luglio – fosse rimasto tale anche nelle settimane a seguire, esso avrebbe contribuito ad aprire un nuovo scenario per gli estrattori OPEC e non-OPEC. Per un verso, la forte domanda – stimata in aumento di 1.500.000 b/g nel 2017 – conferma la nostra tesi ma, dall’altro i produttori OPEC e non-OPEC dovranno prestare grande attenzione al rispetto dell’ultimo accordo, dal momento che i frackers americani, nonostante persistano nubi all’orizzonte, stanno tuttora incrementando il proprio output.
A luglio, i prezzi del petrolio sono aumentati. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le contrattazioni a 49,58$/b e le ha chiuse a 52,68$/b mentre il West Texas Intermediate ha aperto a 47,19$/b per chiudere a 50,20$/b.
Il 7 luglio, sia il benchmark europeo e asiatico, sia il riferimento americano, hanno toccato il minimo mensile, rispettivamente prezzando 47$/b e 44,47$/b in quanto i dati ufficiali hanno messo in luce che i produttori statunitensi avevano incrementato dell’1% il loro output nel corso dell’ultima settimana di giugno. Infatti, le estrazioni petrolifere americane, dopo essere temporaneamente diminuite di 100.000 b/g per un totale di 9.250.000 b/g, hanno nuovamente raggiunto i 9.338.000 b/g.
Successivamente, i prezzi del barile hanno iniziato ad aumentare sino al 19 luglio, quando il Brent ha raggiunto i 49,70$/b e il WTI i 49,70$/b.
Ci sono tre ragioni che possono spiegare tale trend ascendente:
1. Il 13 luglio, secondo i dati forniti dall’Energy Information Administration, le raffinerie USA hanno lavorato al 94,5% del loro potenziale produttivo mentre le scorte americane di greggio sono decresciute di 7.600.000 b/g, la maggiore diminuzione da settembre 2016. Nel contempo, le scorte di benzine sono calate di 1.600.000 b/g;
2. Il dollaro si è deprezzato, sia nei confronti dell’euro, sia verso le principali valute internazionali;
3. Nel corso del II trimestre del 2017, il Prodotto Interno reale Lordo della Cina è cresciuto del 6,9% rispetto allo stesso periodo del 2016. Questo trend positivo è superiore rispetto alle previsioni e in linea con la crescita del I trimestre. L’obiettivo del governo cinese è quello di incrementare il proprio PIL del 6,5% circa nel corso del 2017.
Dopo un nuovo modesto ribasso di 2$/b circa verificatosi tra il 19 e il 21 luglio – probabilmente, dovuto alla speculazione – i prezzi del petrolio sono aumentati durante l’ultima settimana del mese sulla scia delle decisioni prese al meeting di S. Pietroburgo, il 24 luglio. Nello specifico:
1. L’Arabia Saudita ha deciso di ridurre le proprie esportazioni agostine di petrolio a 6.600.000 b/g, 1.000.000 b/g in meno rispetto allo stesso periodo del 2016, mentre gli Emirati Arabi Uniti taglieranno il 10% delle consegne settembrine;
2. La Nigeria, la quale è esentata dagli accordi di novembre 2016, ha promesso di collaborare con i tagli stabiliti dai Membri dell’OPEC nel momento in cui raggiungerà l’output di 1.800.000 b/g. Al momento, la produzione nigeriana è leggermente inferiore a tale livello;
3. Di comune accordo, il Ministro dell’Energia della Federazione Russa, Aleksander Novak, e l’omologo saudita, Khalid al-Falih, hanno espresso il loro sostegno ad una eventuale estensione dell’intesa di novembre 2016. Al momento, essa terminerà il 31 marzo 2018;
4. L’incremento delle trivelle attive nell’oil & gas negli Stati Uniti sta rallentando mentre le scorte USA stanno mostrando una massiccia riduzione (10% in meno rispetto ai picchi di marzo).
In conclusione, se chi prende le decisioni politiche, così come gli investitori, volesse approfondire ciò che ha influenzato l’andamento del barile nel corso degli ultimi mesi, dovrà tenere conto anche delle considerazioni rilasciate il 22 luglio dall’A.D. di Eni, Claudio Descalzi, il quale ha affermato:
"La speculazione è forte. Per esempio, se il prezzo del greggio sale a 52 dollari, e questo a prescindere dal livello delle scorte, allora tutti vendono subito perché non si fidano di cosa succede. Se il prezzo torna a 46 dollari, lo ricomprano. In questo modo vi sono speculatori che stanno realizzando centinaia di milioni, forse miliardi di dollari".
Se il prezzo del Brent – tornato in backwardation alla fine del mese – continuasse ad essere tale nelle prossime settimane contribuirà ad aprire un nuovo scenario per i paesi OPEC e non-OPEC?
A giugno, il prezzo del petrolio è diminuito. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le contrattazioni a 50,25$/b per poi chiuderle a 47,90$/b mentre il West Texas Intermediate ha aperto a 48,18$/b e chiuso a 46,20$/b. Nel momento in cui scriviamo, il Brent sta prezzando a quota 48,57$/b, mentre il WTI a 45,90$/b.
Il 21 giugno, sia il benchmark europeo e asiatico, sia quello statunitense hanno toccato il minimo da 8 mesi a questa parte, rispettivamente quotando 44,79$/b e 42,25$/b a causa delle seguenti ragioni:
1. Nel corso della prima parte del mese, le scorte globali di petrolio (area OSCE) hanno nuovamente superato i 3 miliardi di barili. Soprattutto negli Stati Uniti, dopo essere calate di 25.600.000 barili durante gli ultimi due mesi, esse sono inaspettatamente aumentate;
2. Nigeria e Libia – le quali sono escluse dagli accordi di novembre 2016 – hanno incrementato le proprie estrazioni, apportando nel mercato ulteriori 375.000 b/g in più;
3. Il 16 giugno, l’output statunitense ha raggiunto i 9.350.000 b/g per la prima volta da agosto 2015 grazie alla tecnica estrattiva del fracking.
Il moderato recupero dei prezzi del barile verificatosi durante l’ultima settimana di giugno è stato dovuto al calo delle scorte USA di greggio e di benzine rispettivamente, per un ammontare di 2.500.000 barili e 578.000 barili secondo i dati forniti dall’Energy Information Administration. Inoltre, la produzione statunitense è diminuita di 100.000 b/g, portando l’output complessivo a 9.250.000 b/g.
In conclusione, se il prezzo del barile tocca il minimo da novembre 2016 nonostante l’accordo raggiunto tra OPEC e Federazione Russa in merito ai tagli all’offerta e le tensioni in Medioriente tra Qatar e Petromonarchie, la principale ragione è che l’economia reale globale sta rallentando. Guarda caso, il trend dei consumi USA, i quali determinano i 2/3 del PIL a stelle e strisce – è debole.
di Demostenes FlorosMaggio si è rivelato un mese dalla forte volatilità nel mercato petrolifero, con i prezzi in calo nella prima parte del mese per poi salire in prossimità dell’incontro fra i membri OPEC e successivamente calare nuovamente alla fine del mese, quando i mercati hanno preso consapevolezza nell’impossibilità del cartello di mantenere i prezzi su quotazioni elevate. Queste oscillazioni nello spazio di un mese sono state però apprezzate da alcuni trader che tendono a preferirle rispetto alla calma piatta dei primi due mesi dell’anno, quando non era chiara la direzione che le quotazioni del greggio avrebbero preso. Il mese scorso è stato improntato sull’attesa per il meeting OPEC che si è svolto nella terza settimana. Nella prima settimana i prezzi hanno vissuto un brusco calo dovuto alla crescita graduale di produzione e risorse stoccate, tutto ovviamente in contrasto con gli auspici del cartello che puntava invece a un graduale calo come mezzo per aumentare le quotazioni. Niente di tutto ciò è avvenuto, risultando così in quotazioni che faticavano a superare quota 44 dollari al barile. Per investitori e mercati le buone notizie sono arrivate dalle anticipazioni sull’incontro OPEC che aveva messo in agenda dei tagli produttivi più profondi e duraturi. Le fibrillazioni sono aumentate grazie ai rappresentati di Russia e Arabia Saudita che, di fatto, non hanno ne confermato ne smentito le anticipazioni, gettando benzina sul fuoco delle ipotesi. Questo ha aumentato le aspettative dei mercati, implicitamente dando il via libera ai trader più aggressivi per una sessione di acquisti in serie. Come da prassi, i mercati si sono lasciati prendere da un immotivato entusiasmo, sovrastimando gli impatti positivi previsti dall’incontro OPEC e questo ha trascinato al rialzo le quotazioni fino a quota 52 dollari nella terza settimana di maggio. L’incontro si è svolto senza colpi di scena ma le conclusioni non hanno minimamente soddisfatto le attese degli investitori. I paesi OPEC si sono limitati a confermare il taglio produttivo per altri 9 mesi senza però impegnarsi in ulteriori tagli e questo ha portato a una delusione generale negli investitori, trascinando così le quotazioni sotto la soglia psicologica dei 50 dollari verso la fine del mese. Sono successivamente trapelate indiscrezioni secondo le quali la Russia fosse serena con questi livelli di prezzi, lasciando così le quotazioni alla mercé dell’influenza derivata dai dati di produzione e di stoccaggio in arrivo. A livello tecnico, lo sfondamento a ribasso di quota 50 è un evento fondamentale che dimostra come gli investitori più accorti stessero dominando il mercato petrolifero. Gli investitori più aggressivi non si sono dati pace nei loro tentativi di riportare le quotazioni oltre la fatidica soglia ma i loro tentativi sono stati scoraggiati per tutto il mese di maggio. In generale, gli investitori si aspettano sempre un ulteriore intervento da parte dell’OPEC se i prezzi tornassero a galleggiare fra i 47,5 e i 44 dollari al barile. Guardando al mese di giugno, ci aspettiamo che i dati di produzione e di riserve stoccate saranno il fattore decisivo nella costruzione del prezzo, con un outlook che resta fermamente tendente al ribasso. La produzione della Libia resta molto elevata con le riserve statunitensi ancora a livelli da record e la combinazione di questi due fattori manterrà alta la pressione sui prezzi nonostante l’accordo di taglio produttivo dell’OPEC sia operativo per tutto il mese. La crisi diplomatica fra il Qatar e l’Arabia Saudita potrebbe dare una spinta verso l’alto ai prezzi ma gli analisti sono scettici su quanto e come questa situazione politica possa avere un effetto prolungato sulle quotazioni.
di FXEmpireAd aprile, i prezzi del greggio hanno registrato un trend in crescita che si è protratto fino alla metà del mese per poi ripiegare, con una drammatica inversione tecnica, dopo una serie di sei giorni positivi. Il rally è stato guidato principalmente da fondi speculativi e di acquisto di commodity aggressivi e dall’atteggiamento degli investitori ottimisti che hanno continuato a scommettere su un deficit di produzione del petrolio. Lo stimolo a continuare ad acquistare è derivato dalla tenuta dell’accordo OPEC che intende tagliare la produzione di petrolio, ridurre l'offerta globale e stabilizzare i prezzi. I trader hanno ignorato i segnali derivanti dalla crescente produzione statunitense da quando alcuni rumors hanno iniziato a far trapelare di una possibile estensione dell’accordo tra membri OPEC e alcuni non-OPEC per ridurre l'output oltre la scadenza di giugno. Il greggio ha cominciato ad allontanarsi dal picco dei 54,14 dollari del 12 aprile quando la produzione petrolifera dello shale americano è aumentata per compensare le preoccupazioni sulle tensioni geopolitiche in Medio Oriente e i tagli a sostegno dei prezzi. Le riserve degli Stati Uniti hanno toccato livelli record in entrambi gli hub di stoccaggio negli Stati Uniti a Cushing, in Oklahoma e nella costa del Golfo degli Stati Uniti. Inoltre, l’attività di trivellazione negli Stati Uniti è andata avanti per tutto il mese di aprile, favorendo i ribassisti in vista di un aumento della produzione in futuro. Il pienone delle vendite, avvenuto il 19 aprile, è stata segnata da una liquidazione massiccia da parte dei fondi hedge e commodity, che ha fatto crollare il mercato di quasi il 4% in una sola sessione. Questo ha scatenato una svendita che alla fine ha portato i prezzi a $ 49.20, poi risaliti a fine mese a 49.33 dollari, con una perdita del 3.41%, pari a 1.74 dollari in un mese.
di FXEmpireMarzo si è rivelato un mese volatile con i prezzi del petrolio in picchiata durante la prima parte del mese; anche se sono poi riusciti a ribaltare la situazione e, nell’ultima settimana del mese, sono stati in grado di recuperare, in parte, l’andamento al ribasso. Le quotazioni del greggio sono rimaste per un paio di mesi in un range compreso tra i 53 e i 55 dollari e abbiamo assistito ad una fase nelle quale i trader hanno manifestato una perdita di interesse per il mercato del petrolio, a causa del prezzo bloccato in questo range dal quale, per diverse settimane, non ha dato cenno di volersi spostare. Proprio durante il mese di marzo, il mercato si è lentamente reso conto della dimensione dei volumi che si stavano concretizzando e ha realizzato che le riserve e la produzione non hanno mostrato neppure l’ombra di quanto era stato previsto al momento della sigla dell'accordo tra i produttori di petrolio. Ci si aspettava che la produzione e le scorte diminuissero gradualmente spingendo i prezzi sempre più in alto. Ma l’incremento della produzione nordamericana ha invece sortito l’effetto di aumentare le forniture di petrolio contro ogni aspettativa. Questo alla fine è emerso chiaramente e gli investitori hanno iniziato a vendere già dai primi giorni del mese scorso. Anche se la svendita è durata solo un paio di giorni è stata sufficiente a spingere verso il basso i prezzi del petrolio di circa il 12%, arrivando a toccare la cifra cruciale di 50 dollari. Un duro colpo per i tori (gli investitori che si posizionano per trarre profitto dai rialzi) che, per 2 settimane, non sono riusciti rompere il muro dei 50 dollari. Solo verso la fine del mese, grazie ad una concomitanza di eventi, le riserve di petrolio hanno cominciato a mostrare qualche segnale di prosciugamento, i produttori di petrolio hanno ripreso fiducia nel proseguire con gli accordi presi alla fine dello scorso anno e la produzione di petrolio libico è calata gradualmente; i prezzi del petrolio sono allora risaliti sopra i 50 dollari e lì si sono fermati fino alla fine del mese. Guardando al mese di aprile, possiamo prevedere che i prezzi del petrolio, che hanno varcato la soglia dei 50 dollari, rimarranno al di sopra di questa cifra a lungo. Questo è ciò che i tori sperano ed è importante fare attenzione all’output della produzione e alla quantità di riserve per accorgersi in tempo dei segnali di un eventuale crollo, dal momento che sono questi i fattori che più di tutti guideranno i prezzi del petrolio nel mese entrante. Secondo le nostre previsioni, i prezzi oscilleranno tra i 50 e i 55 dollari ad aprile, se i dati previsti saranno così come ci si aspetta. In alternativa, i prezzi del petrolio rischierebbero di cadere nuovamente al di sotto dei 50 dollari. Se ciò accadesse, i tori si troverebbero in seria difficoltà e difficilmente sarebbero in grado di superare nuovamente questo tetto.
di FXEmpireI future sul WTI, West Texas Intermediate, hanno chiuso in leggero rialzo nel mese di Febbraio. L’intervallo del prezzo è stato estremamente ristretto a causa di un significativo aumento della produzione di petrolio negli Stati Uniti che ha continuato a frenare il maggior impegno sui tagli previsti dall’accordo Opec. Il WTI con scadenza ad Aprile ha chiuso a 54,01 dollari al barile, in crescita di 0,59 dollari che equivale a un + 1,10%. Nel mese di febbraio il prezzo del petrolio ha continuato ad oscillare all’interno dei 3,17 dollari. La produzione di petrolio degli Stati Uniti ha continuato a crescere durante il mese scorso con giacenze in aumento di settimana in settimana, fino a raggiungere alla fine del mese un record di 520,2 milioni di barili di petrolio. In aumento anche il numero degli impianti di perforazione di petrolio che hanno toccato a febbraio quota 602 impianti di perforazione, grazie ai 36 nuovi. Secondo fonte Reuters, l'Opec ha ridotto la propria produzione di petrolio per il secondo mese consecutivo: i dati mostrano come il Cartello abbia rispettato l’impegno preso tagliando la produzione del 94% rispetto a quanto concordato. L'Arabia Saudita, ad esempio, ha ridotto la produzione di più di quanto promesso. La Russia ha diminuito il proprio output di un terzo rispetto a quanto concordato. Infine, i dati ufficiali dimostrano che il fondi comuni di investimento statunitensi detengono un record netto di lungo periodo sui future del petrolio e le opzioni.
di FXEmpireNel mese di gennaio abbiamo assistito alla prima implementazione dell’accordo Opec sui tagli alla produzione di petrolio, con il fine ultimo di sostenere la crescita dei prezzi ormai in caduta. Dalle decisioni prese durante il meeting di fine novembre dei Paesi produttori, abbiamo visto che i prezzi del petrolio, durante il mese, si sono assestati in un range compreso tra i 50 e i 60 dollari al barile. Nonostante i dubbi inziali, la messa in atto dei tagli sta proseguendo come pianificato e i paesi Opec hanno espresso soddisfazione sull’andamento dell’accordo, ma nonostante ciò i prezzi del petrolio non sono riusciti a sfondare il tetto di questo range, considerate anche le preoccupazioni dovute dalla crescita sostenuta dalle riserve degli Stati Uniti. Sebbene i Paesi Opec e non-Opec stiano puntualmente rispettando l’accordo, i dati in arrivo non presentano ancora importanti variazioni delle riserve o delle forniture di petrolio ed è altamente improbabile che i prezzi inizino a muoversi verso l'alto. L'obiettivo finale sarebbe quello di attestarsi a circa 60 dollari al barile ed è questo il target a cui i produttori stanno puntando. Un traguardo difficile da realizzare se nel Nord America continueranno a pompare grandi quantità di petrolio, che inevitabilmente andranno ad alterare il rapporto complessivo tra domanda e offerta, causando di conseguenza, una brusca frenata nel graduale aumento dei prezzi. Guardando a febbraio, gli investitori più aggressivi stanno sperando che l'accordo continui a resistere alle tensioni politiche oltre ad aspettare i dati che rendano evidente la contrazione nell’offerta, così da far avvicinare i prezzi verso l'obiettivo a breve termine di 55 dollari e di 60 dollari a medio termine.
di FXEmpireIl petrolio ha registrato una crescita consistente nel mese di dicembre, spinto dalla decisione di fine di novembre, da parte dell’OPEC, di tagliare la produzione a partire dal 2017. Non sono mancati i dubbi durante tutto l’anno sul fatto che il Cartello fosse in grado di raggiungere un accordo unanime, ma l’atteggiamento del mercato durante il mese di dicembre lascia presagire che gli investitori gli accordino fiducia. Il piano di riduzione stabilito dall'OPEC prevede un taglio congiunto della produzione pari a 1,2 milioni di barili al giorno, ovvero più 3%, e che porterà il tetto produttivo complessivo a 32,5 milioni di barili al giorno. L’Arabia Saudita, uno dei maggiori esportatori di petrolio al mondo ha dichiarato di voler ridurre la propria produzione a più di 486.000 barili al giorno. La notizia ha alimentato la crescita nelle quotazioni del WTI, West Texas Intermediate Crude Oil, che da 46,62 dollari è passato a 54,26 dollari. Dopo una battuta d'arresto nel breve termine a 51,80 dollari il 12 dicembre alla notizia che anche i paesi non-Opec hanno deciso di ridurre la produzione di 558.000 barili al giorno, il mercato è schizzato a 56,24 dollari. La Russia è il paese, tra quelli non- OPEC, che ha deciso di fare lo sforzo maggiore arrivando fino a un taglio di 300.000 barili al giorno. La domanda ha raggiunto una fase di stallo dopo il balzo a 56,24 dollari poiché gli investitori hanno cominciato a esprimere dubbi sul fatto che il piano avrebbe funzionato abbastanza velocemente da ridurre l'offerta e stabilizzare i prezzi. Inoltre, gli investitori hanno espresso preoccupazioni per l'aumento della produzione di petrolio da parte degli Stati Uniti e la fornitura totale dal momento che i produttori hanno continuato a lavorare sul fronte dell’estrazione. Verso la fine del mese i prezzi sono rimasti stabili rispetto alle ultime quotazioni poiché molti paesi hanno informato i consumatori degli imminenti tagli alle forniture mentre la Libia ha intensificato la produzione. Alla data di chiusura il 23 dicembre, il future WTI con scadenza a marzo è aumentato del 5,29% nel mese.
di FXEmpireE' stato un mese a dir poco turbolento per i futures con scadenza a gennaio del WTI, West Texas Intermediate Crude Oil. I mercati hanno viaggiato sulle montagne russe durante tutto il mese, influenzati dalla capacità dell’OPEC di raggiungere un accordo sul taglio e sui limiti alla produzione di petrolio. Il clima di incertezza ha portato il WTI a toccare i minimi del mese attestandosi a 43,32 dollari prima dell’annuncio a sorpresa del 30 novembre, quando l’Opec ha stabilito un taglio di 1,2 milioni di barili al giorno a partire da gennaio 2017. Si tratta del primo accordo di questo tipo dal 2008 e della prima intesa Opec-Russia sui tagli alla produzione dal 2001. L’avvicinamento al meeting di Vienna ha fatto registrare il picco della retorica, con l’Arabia Saudita che intimava di non voler tagliare la produzione se tutti i membri del cartello non avessero seguito il suo esempio, anche se in sole 11 ore sono stati proprio i sauditi a giocare la parte del leone accettando di tagliare la produzione di 0.5m barili al giorno. Ha fatto seguito la Russia con un taglio da 0,3 milioni di barili al giorno, che rappresenta metà del taglio (0,6), concordato dai membri non-OPEC. Anche se l’intenzione di Mosca è iniziare a limitare la produzione dal 1° semestre del prossimo anno. Subito dopo l’annuncio, le quotazioni del WTI e Brent sono salite rispettivamente del 9,31% e del 8,82%. Rispondendo alla notizia positiva, a novembre i mercati hanno spinto il WTI verso una crescita mensile del 5,5% attestata a 49,44 dollari. Ma non tutto è andato come avrebbe dovuto, con l’Indonesia – membro OPEC rientrato ad inizio anno nell’organizzazione – a minacciare una sua possibile sospensione pur di non riportare la produzione entro 37mila barili al giorno. Il tempo di far passare il polverone e il mercato probabilmente tenterà di capire come i produttori di shale oil degli Stati Uniti risponderanno all’accordo OPEC. Nel frattempo, le trivelle attive negli Stati Uniti solo nell’ultimo mese sono passate da 441 a 474.
di FXEmpireA ottobre i prezzi del petrolio hanno registrato un aumento costante durante l’intero mese. Un andamento in continuità con il precedente rialzo generato dal calo delle forniture di petrolio da parte dei Paesi OPEC, come stabilito dall’accordo raggiunto durante il meeting del 28 settembre scorso. Il merito di questa crescita costante va dunque ai Paesi esportatori di petrolio che sono riusciti a tagliare la produzione di petrolio senza grandi gaffe diplomatiche (fa eccezione il rifiuto dell'Iraq) e questa riduzione ha spinto il prezzo del petrolio da 48,3 dollari ad un massimo di 52,3. Verso la fine del mese, si registra una correzione dei prezzi del petrolio dovuta in generale alla forza del dollaro e al peso delle riserve di greggio che continuano a essere rilevanti, nonostante le decisioni sui tagli alla produzione. I prezzi del petrolio hanno incontrato un blocco tra i 52 e i 53 dollari, un range che si è rivelato un ostacolo anche in periodi in cui il dollaro americano era debole e i prezzi delle materie prime in crescita. Ma sulla base di ciò che abbiamo osservato finora, tutti i tentativi di superare questa fascia di prezzo sono andati a buon fine.
Il prossimo mese sarà fondamentale in quanto i produttori OPEC si incontreranno di nuovo alla fine di novembre per discutere ulteriori passi nei tagli alla produzione. Quello che possiamo prevedere è che daranno indicazioni più dettagliate sulle quote e sui Paesi che effettueranno i tagli. Se questo accadrà e i Paesi partecipanti saranno in grado di raggiungere un accordo, possiamo affermare che assisteremo a una corsa al rialzo dei prezzi del petrolio, e che questa condizione potrà essere sufficiente per rompere il muro dei 53 dollari al barile e dirigersi verso i 55 dollari e oltre.
Il future sul WTI con scadenza a novembre ha viaggiato a briglie sciolte nel mese di settembre, registrando cinque grandi oscillazioni di prezzo sul grafico giornaliero e scambi al di sopra e al di sotto dei 45,31 dollari del mese precedente, per ben sei volte, prima di chiarire cosa ci si doveva aspettare a fine mese. Gli scambi bilaterali hanno messo in evidenza come a settembre la volatilità abbia raggiunto il livello più alto da aprile 2016, quando l'OPEC ha partecipato all'incontro di Doha per decidere sui tagli alla produzione. La volatilità di settembre è stata alimentata da un evento simile: i colloqui informali di Algeri. Per tutto il mese, gli investitori hanno giocato su più fronti a causa dell’incertezza sull’intesa tra l’OPEC e gli altri principali membri non OPEC per bloccare o frenare la produzione. I rialzisti hanno avuto la meglio e hanno accolto con soddisfazione i risultati dell’incontro di Algeri quando, a sorpresa, l'OPEC ha raggiunto un accordo provvisorio per ridurre i livelli di produzione di greggio. L'accordo prevede un taglio di circa 700.000 barili al giorno con la produzione di petrolio che dovrebbe calare a 32,5 milioni di barili al giorno. I dettagli dell’accordo devono ancora essere elaborati, cosa che potrebbe avvenire durante la riunione formale dell’OPEC di fine novembre. Questa prima intesa rappresenta tuttavia una tappa significativa perché, per la prima volta dal 2008, il gruppo è stato in grado di trovare un punto di incontro sui tagli alla produzione.
di FXEmpire